Il Sud diventi un secondo motore o anche il Nord si ferma

C’è una inerziale, insistente ossessione in giro in questa Italia abbacinata dal sole del promesso Recovery Fund (RF). Potrebbe essere un “sole ingannatore” che, invece di favorire, accentua la consolidata ritrosia a fare chiarezza, confrontarsi su cose, fatti, numeri, soluzioni, visioni. Un Paese diviso, in evidente declino al Nord e allo sbando al Sud, dovrebbe anzitutto interrogarsi. Basta guardare i numeri per capirne l’urgenza. Fatto 100 il reddito procapite dell’Unione europea, il nostro era 112 nel 1995, 110 nel 2000, 100 nel 2013 e a 95 nel 2019. Non solo, nel 2000 il nostro reddito pro capite era pari a 27.950 euro; nel 2019 è 26.860 (-3,9%) con una perdita pro capite di oltre mille euro. Partivamo con un vantaggio del 19,2%, oggi accusiamo un ritardo sulla media di oltre il 6%. Se poi guardiamo il reddito pro capite delle 280 regioni dell’Unione europea tra il 2000 e il 2018, la nostra punta di diamante – la Lombardia – scivola dal 17esimo al 44esimo posto (passando da un reddito pro capite del 158% rispetto alla media al 126%); l’Emilia Romagna dal 25esimo posto scende al 55esimo (e dal 148% al 119%) ; il Veneto dal 36esimo al 74esimo posto (e dal 138% al 109%). Piemonte, Toscana, Friuli Venezia Giulia già nel 2018 sono di poco al di sopra del reddito pro capite dell’Unione europea e in vistoso arretramento in graduatoria.

La caduta libera delle “regioni forti” alimenta quel divario Nord-Ue del quale non è politicamente corretto parlare. Non vedo un febbrile interesse su questo fronte e azzardo due motivazioni. La prima è la strutturale difficoltà a “interpretare” l’anatomia del Paese, a leggerne la storia: fa premio una sorta di smemoratezza-lavaggio di un cervello pieno di illusioni oggi appassite ma ancora infestanti, tutt’altro che contrastate e alimentate dalla retorica di una futura normalità mediatico-digitale. La seconda, interconnessa, più inquietante, è il diffuso atteggiamento di non voler fare i conti con i fatti e farsi carico di governare il cambiamento che quell’analisi imporrebbe. Entrambe incentivano pericolose terapie elusive, in particolare la seconda, che – detta prosaicamente – si conforma alla popolare prassi di “fare lo scemo per non andare alla guerra”. Siamo arrivati oggi al punto di dover confidare nell’Ue per evitare pericolosi colpi di sole. Non ci voleva certo la pandemia per scoprire la patologia italiana da anni sotto gli occhi di tutti.

Nonostante ciò, sul “che fare?” si sente invocare di “tornare a crescere, per correre come e più di prima”. A fine marzo, in piena crisi, dalle colonne del Corriere della Sera un maître à penser in servizio permanente effettivo elargiva lusingieri pronostici sul dopo: «Ci sarà un’esplosione di energia sociale oggi repressa. Un nuovo boom economico è possibile e riguarderà soprattutto i territori che hanno pagato un alto prezzo». L’audace profezia chiariva che non sarà la replica dell’epopea di fine anni Cinquanta, ma sarà un boom asimmerico (come la crisi che dal 2008 ci attanaglia). E, avvertiva, le «nostre storiche magagne potrebbero mettersi di traverso, impedirci di beneficiare a pieno del probabile boom post-epidemia. Fra le tante magagne: la zavorra burocratica e l’ideologia pauperista». Ovviamente l’ideologia pauperista è il vero untore che si annida «nell’ azione propagandistica di coloro che cercano di sfruttare a proprio vantaggio la divisione tra Nord e Sud». È presumibile che alluda all’Istat, alla Banca d’Italia, alla Svimez, ai Conti pubblici territoriali, quali fomentatori di questi «arruffapopolo che giocano allo sfruttamento politico della divisione Nord-Sud».

Sconcerto a parte, dobbiamo essere grati a questa autorevole analisi-confessione che mette a verbale i punti di un vero progetto-prototipo: innanzitutto ci sarà un paradiso dopo l’orribile inferno per gli eletti sopravvissuti; in secondo luogo, attenti ai “pauperisti-arruffoni-sfruttatori”; ancora, la divisione Nord-Sud è il residuo secco del disastro italiano del quale liberarsi; la consolatoria road map del dopo-contagio, infine, parla ai cittadini sopra il Rubicone mentre del Sud non è il caso di parlare, anche perché si sa che tra il Rubicone e il Garigliano c’è una terra di nessuno in via di meridionalizzazione. Ecco una “visione” oggi in campo, tutt’altro che marginale. È tragica l’incapacità di cogliere nella trentennale ghettizzazione del Sud la fonte della discesa del Nord nel maelstrom: altro che miracolo economico prossimo venturo! L’auspicata “ripresa” del 2021 (+4%) a fronte del crollo stimato del 2020 (oltre -9%) prospetta, alla fine del prossimo anno, una perdita di cinque punti rispetto al magrissimo 0,2% del 2019. Esso va sommato al ritardo cumulato rispetto al 2007 arrivando così a 5-7 punti al Nord e a 15-18 punti al Sud.

L’Ue, Germania in testa, nel 2021 avrà sostanzialmente pareggiato i conti con il dramma del 2020 avendo già da anni superato di decine di punti il per noi irraggiungibile pil del 2007. Su queste basi, profezie consolatorie non sono raccomandabili tanto più se, gratta gratta, mirano a tutelare quelle pratiche estrattive oggi certificate in sedi parlamentari e ministeriali. È tempo di ragionare, non di esorcizzare il problema Nord-Sud riportando alla realtà anche chi – più sobriamente – in tempi non sospetti ritiene prioritario (si legga Il Foglio del 4 maggio 2019) far correre “Milano” al modico prezzo di rallentare “Napoli”. Il masochismo di una certa intellighenzia continua a perorare (senza avvedersene?) il fatuo privilegio della strategia estrattiva tramite la quale da anni non si accorge di stare segando il ramo sul quale sempre più precariamente siede. Se non si ha il coraggio di analizzare con freddo realismo lo scenario che il cortocircuito di mesi di blocco ci consegna l’ipotesi di riprendere quel cammino, magari dopo una minuziosa manutenzione a carico del RF, non invertirà certo la deriva né eviterà l’approdo da tempo segnalato dall’Istat e dalla Banca d’Italia che mettono in chiaro la criptica profezia di Mazzini, cioè che l’Italia sarà quello che il Mezzogiorno sarà.

Un’Italia intrisa di disuguaglianze sociali e territoriali che, risolta per eutanasia la storica Qestione, tornerà – per quel che resta – al rango di espressione geografica. Al fine di invertire queste dinamiche (ben precedenti alla pandemia), l’Europa, non per filantropia, offre un soccorso che dovremmo saper cogliere e interpretare. Si tratta di rompere l’esperienza più che ventennale della quarantena imposta fin dal 1993 al 40% del territorio e a venti milioni di malgovernati cittadini liquidando il brillante schema che presume di salvaguardare le “locomotive” trainanti, praticando sistematiche somministrazioni di austerità espansiva via via più asimmetriche e penalizzanti. Questa dottrina, senza eccessiva sorpresa, ha inciso al Nord oltre che al Sud, differenziati unicamente per la velocità relativa della perdita di contatto con l’Unione. Una situazione che oggi porta al doppio paradosso di chiedere con forza di “tornare a correre come prima” e a denunciare il pericolo di risarcimenti invocati dal Sud.

Se si vuole riflettere con un minimo di senso della realtà, il “risarcimento” urgente e necessario è quello di applicare finalmente la legge e la Costituzione e, quanto a priorità, quella di definire un chiaro progetto-sistema che riesca a dotare il Paese di un indispensabile “secondo motore”: il Sud nel Mediterraneo. Il che potrebbe essere – grazie all’Ue – immediatamente praticabile senza intaccare di un euro le beneficiarie della spesa storica estrattiva che va immediatamente sostituita dalla spesa storica nazionale pro capite di lungo periodo. Un criterio automaticamente perequativo e al contempo un potente incentivo a definire livelli essenziali di prestazione, fabbisogni-standard in regime di costi-standard. La salvaguardia del “privilegio” sarebbe pro tempore compatibile con una progressiva perequazione veicolata dall’impiego di risorse in conto capitale destinate prioritariamente al progetto-sistema dell’avvio del secondo motore al Sud.

È quello che l’Ue chiede per soddisfare le condizionalità di ridurre le divergenze, promuovre la coesione all’insegna di investimenti smart e green. Insistere a voler riprendere la rotta del viaggio interrotto dal blocco, senza mettere in moto il 40% del territorio e il 34 % dei cittadini, è una autolesionistica fantasia fuori dalla storia non fosse altro per il fondatissimo rischio che, nel giro di pochi, anni Liguria, Piemonte, Toscana, Friuli-Venezia Giulia parteciperebbero a diverso titolo con l’aggiunta di Marche e Umbria al gregge delle sette sorelle meridionali più o meno chiuse nei recinti regionali delle politiche di coesione.

Nel Paese è soprattutto l’assiomatico solipsismo della “triplice lombardo-veneto-emiliana” a puntare decisamente “al come prima”, una condizione per loro essenziale per riproporre in solido quell’autonomia rafforzata finita con la caduta del governo gialloverde l’8 agosto 2019. L’obiettivo di “farsi Stato” è tutt’uno con l’idea che ciò renda praticabili soluzioni – separate e su misura – per arrestare il proprio declino. Guardare oggi al futuro, riflettere con la dovuta umiltà sulla propria storia, aiuterebbe a comprendere quanto sia illusorio e soprattutto “costoso” in senso lato immaginare di uscire da questa crisi non “insieme” o “grazie” ma “nonostante” il Mezzogiorno.