Il “suicidio annunciato” di Roberto Franzè, impiccato in carcere: “Vomitava ogni giorno, pesava 50 chili”

Roberto Franzè era arrivato a pesare 50 chili, vomitava ogni giorno e soffriva di patologie psichiche. È stato trovato morto – si sarebbe impiccato con un lenzuolo – nella sua cella del carcere di Ascoli Piceno ieri in tarda mattinata. “La sua morte richiede una profonda riflessione sulla gestione della custodia cautelare che non può portare al suicidio delle persone”, denunciano i suoi avvocati. Il 46enne di origini calabresi voleva difendersi da persona libera dalle accuse per le quali era indagato o imputato. Si parla di suicidio annunciato in quanto nelle sue lettere Franzé scriveva “non ce la faccio più, non posso continuare così”.

L’uomo aveva origini calabresi ed era residente a Pumenengo, in provincia di Bergamo. Da anni viveva nel bresciano. L’ultima misura di custodia cautelare gli era stata notificata dal gip a novembre scorso nell’ambito di un’inchiesta coordinata dalla Dda di Brescia. Le accuse erano di usura, estorsione, sequestro di persona, rapina, ricettazione, lesioni, porto abusivo di armi e attività finanziaria abusiva. Con l’aggravante del metodo mafioso. Secondo l’accusa Franzè aveva prestato migliaia di euro a imprenditori in difficoltà per farseli restituire sotto minaccia e in maniera violenta a interessi usurai.

Gli avvocati Gianbattista Scalvi e la collega Anna Marinelli denunciano “un suicidio annunciato da lettere quotidiane ai Magistrati titolari dei procedimenti nei quali era indagato”. Il tragico proposito era stato segnalato “anche due giorni prima del suicidio” ed “era stato di nuovo comunicato da parte dei difensori alle istituzioni competenti. Franzè aveva riferito di essere ridotto a 50 chili di peso, di vomitare ogni giorno oltre ad essere sofferente delle patologie psichiche documentate agli atti. Aveva detto di non farcela più e di non poter attendere la sciatteria degli enti pubblici nel ritrovare una comunità che potesse ospitarlo per le proprie patologie. Franzè aveva cercato di dimostrare la propria innocenza per le accuse delle quali era indagato o imputato e aveva chiesto di poterlo fare da persona libera o con una misura cautelare che gli consentisse di stare con la propria moglie e la propria famiglia anche per le proprie gravi condizioni di salute”.

Franzé, classe 1976, secondo gli avvocati non poteva stare in carcere a causa delle sue patologie, “era invalido civile al 100% e sorvegliato nel Reparto psichiatrico”, e i legali erano “alla ricerca di una comunità che lo ospitasse”. A trovarlo senza vita nella sezione “Alta sicurezza” del carcere di Marino del Tronto, sarebbero stati i compagni rientrati in cella dall’ora d’aria. Le guardie penitenziarie non hanno potuto fare niente per salvare l’uomo. Franzè era già detenuto ad Ascoli Piceno ed era finito al centro di un’altra inchiesta condotta da carabinieri, polizia e Guardia di Finanza – “Atto finale”, con 67 indagati in tutto di cui 14 finiti in carcere. Le accuse dalle indagini della Dda di Brescia erano usura, estorsione e riciclaggio oltre a un presunto giro di fatture false, ancora con l’aggravante del metodo mafioso. In questo caso per Franzè la misura fu annullata dal Tribunale della libertà.

A ottobre scorso la condanna a tre anni con il rito abbreviato per tentata estorsione da 100mila euro, aggravata dal metodo mafioso, ai danni di una coppia di imprenditori della Bassa. La difesa aveva annunciato il ricorso in appello per la sentenza. “La vera vittima di questa vicenda – aveva osservato l’avvocato Scalvi – è la moglie del mio assistito: non solo non è mai stata adeguatamente retribuita dalle parti offese, ma anche licenziata mentre si trovava in maternità dopo un passaggio di intestazioni societarie con prestanome”.