Parla l'economista
“Il Superbonus è un assurdo, errore dire no al Mes”, intervista a Veronica De Romanis
Alla fine della settimana scorsa il governo ha varato alcuni provvedimenti per un totale di 8 miliardi. Nei prossimi mesi servirà il massimo impegno per portare a compimento gli obiettivi fissati nel Piano nazionale di ripresa e resilienza, mentre resta sempre da tenere sotto controllo il debito pubblico, l’annoso problema italiano. Infine, al prossimo vertice europeo che si svolgerà l’11 e il 12 marzo a Parigi si parlerà del nuovo modello di crescita economica e d’investimento (e quindi della possibile riforma delle regole fiscali comuni). Di questi argomenti Il Riformista ha parlato con Veronica De Romanis, economista e saggista, docente di European Economics all’Università Luiss di Roma e alla Stanford University di Firenze.
Dieci giorni fa Mario Draghi e Daniele Franco hanno stigmatizzato il Superbonus 110%, denunciando anche le frodi ai danni dello stato che ha alimentato. Possiamo leggere le loro dichiarazioni come uno stop al populismo economico dei Cinquestelle?
In realtà il bonus è sempre lì. In precedenza quello del cashback era stato cancellato. In questo caso non mi sembra che ci sia stata la volontà di farlo. Eppure Draghi ha chiarito due cose. Primo: è regressivo e, infatti, aveva provato a inserire un tetto Isee che il parlamento ha eliminato. Secondo: che serva a far ripartire il settore delle costruzioni è da provare. “In altri Paesi il settore si sta riprendendo senza bonus”, ha spiegato il premier. E, infine, sui costi, è stato Franco a spiegare che nel medio termine sono “insostenibili”. A conti fatti, si doveva intervenire in modo più radicale. Le frodi sono l’ultimo dei problemi di un provvedimento che crea gli incentivi a dissipare denaro pubblico invece che a risparmiarlo. Un assurdo.
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza prevede 100 obiettivi da centrare nel corso del 2022: quali saranno secondo lei le pietre miliari da raggiungere entro quest’anno?
Nella prima fase abbiamo allocato le risorse. Oltre 200 miliardi di cui oltre la metà a debito (solo noi, la Grecia e la Romania abbiamo deciso di prendere tutti i prestiti a disposizione). Un compito facile per le forze politiche. Ora inizia la parte difficile. Quella delle riforme. La concorrenza, la giustizia ma anche la spending review sono tra gli obiettivi da raggiungere nella prima parte dell’anno. Si tratta di decisioni politiche che hanno un costo significativo in termini di consenso, difficili da prendere per una maggioranza di governo così eterogenea. Per questo, sono sempre state rimandate negli anni. C’è allora da chiedersi: quali potranno essere per i partiti gli incentivi ad approvare misure spesso impopolari a pochi mesi dalle elezioni?
Nella sua ultima conferenza stampa, Mario Draghi ha dato buone notizie sul fronte del mercato del lavoro. Gli occupati sono cresciuti tra gennaio e dicembre di 650 mila unità con un aumento di 2,2 punti percentuali: ritorna il livello che c’era prima della pandemia. È un segnale positivo? Quali criticità restano? E come si dovrebbe intervenire?
Il mercato del lavoro si sta riprendendo. Ma ci sono due problemi. Il primo è la qualità del lavoro: gran parte dei contratti sono a tempo determinato. Secondo problema: l’obbiettivo non deve essere quello di ritornare alla situazione precedente alla pandemia. Dobbiamo ricordare infatti che, nel 2019, eravamo fanalino di coda dopo la Grecia e la Spagna. In particolare, per quanto riguarda l’occupazione delle donne e dei giovani. Un paese che ha iniziato la crisi con oltre il 20 per cento di “neet” (ovvero i giovani che non hanno né cercano un impiego e non frequentano una scuola né un corso di formazione o di aggiornamento professionale), pari a dieci punti in più della media dell’eurozona, ha ancora una lunga strada da percorrere. Molti interventi sono nel Pnrr: sistema duale, rafforzamento degli Istituti tecnici superiori e riforma dei centri per l’impiego. La direzione è giusta.
Per ridurre il peso del caro bollette – ed evitare così che il caro energia si traduca in un minor potere d’acquisto delle famiglie e in una minor competitività delle imprese – il governo stanzierà 6 miliardi di euro senza ricorrere a ulteriori scostamenti di bilancio. È il segno che ci sono buoni segnali sul fronte della crescita e della finanza pubblica?
Usare “i margini della crescita” come ha spiegato il premier per finanziare il caro bollette non significa che nessuno paga. I pasti gratis, ahimè, non esistono. Quello che ha deciso di fare il governo è di utilizzare i proventi della crescita, ossia maggiori entrate, per finanziare maggiori spese. E non per ridurre il debito come era stato stabilito. Questa scelta espone a due rischi: un rallentamento maggiore del previsto e tassi di interesse che iniziano a salire. Ciò potrebbe minare l’attuale quadro di finanza pubblica.
Draghi dice che per fronteggiare il debito serve la crescita.
Certo, ma se la crescita viene usata per finanziare ulteriori spese, il debito non riesci a ridurlo.
Quanto peserà l’inflazione? Quali differenze con gli Usa? Quali misure bisognerà adottare per fronteggiarla?
La situazione è molto diversa da quella degli USA dove si è quasi recuperato la situazione della pre pandemia. La Bce ha deciso di aspettare. Una stretta prematura potrebbe avere più svantaggi che vantaggi. Bisogna comunque ricordare che l’inflazione funziona come una tassa iniqua perché penalizza di più chi sta peggio.
È arrivato il momento di ratificare le modifiche al trattato del Mes, il meccanismo europeo di stabilità pensato dall’Ue per fornire assistenza ai paesi della zona euro che devono affrontare difficoltà finanziarie. Quali ripercussioni può avere sul cammino delle riforme? Sbaglia l’Italia a non utilizzare quei fondi?
Si, sbaglia. Con il Mes si può risparmiare in spesa per interessi perché il debito europeo (ovvero quello del Mes) costa meno del debito italiano. Si è deciso di non attivarlo per pura ideologia. Chi ha fatto questa scelta dovrebbe prendersi la responsabilità delle maggiori spese per il costo del servizio del debito, in una situazione come quella attuale dove aumentano le disuguaglianze e la povertà. Ci vorrebbe più cura e più trasparenza su come vengono usati i soldi dei contribuenti, soprattuto i contribuenti di domani sui quali peserà il debito. In ogni caso, la riforma del Mes che deve essere ratificata dal Parlamento non riguarda la linea di credito ma una riforma già approvata dal precedente Governo che include, tra le altre cose, la creazione una rete di sicurezza nel caso di crisi bancaria. Per un paese come il nostro, uno strumento utile da avere nella cassetta degli attrezzi europea.
Draghi e Macron hanno scritto una lettera per rivedere il patto di stabilità e le regole del bilancio europeo: come la valuta?
A sentire il dibattito politico sembra che le regole attuali siano dannose e quindi debbano essere cambiate. Ma se si leggono attentamente si evince che non è così. Le regole consentono di spendere per le riforme, per gli investimenti, nel caso di eventi inaspettati come l’arrivo improvviso di migranti oppure una catastrofe naturale, oppure in caso di recessione dell’intera area. E, infatti con il Covid, le regole – come previsto dai regolamenti – sono state sospese. Si tratta di un quadro normativo molto flessibile. Lo stesso Draghi, quando era presidente della Bce, aveva detto in diverse occasioni che “le regole hanno tutta la flessibilità che serve”. Il problema delle regole semmai riguarda il modo in cui sono state interpretate dalla Commissione europea nel corso degli anni. In un primo momento è stata rigida e poi, dopo il 2015, molto flessibile. All’Italia, ad esempio, Bruxelles ha concesso nel biennio 2016-2017 oltre 22 miliardi di spesa a debito che ha escluso dal calcolo delle regole. Che poi queste risorse siano state usate non per le riforme, non per gli investimenti, ma per i bonus, questa è stata una scelta del governo di allora. Le regole, davvero, non c’entrano.
È d’accordo con l’idea di creare un’agenzia europea del debito?
Condividere il debito è un passo fondamentale per andare avanti nella costruzione dell’unione monetaria. Lo abbiamo fatto con il Next Generation Eu. Ma qui si è trattato di un debito deciso insieme da usare con finalità condivise (transizione verde, digitale, inclusione). Mettere, invece, in comune il debito pregresso deciso dai singoli stati – come, per esempio, quello per finanziare il Superbonus 110% – difficilmente potrebbe essere accettato dagli altri. Peraltro c’è da chiedersi che interesse avrebbe oggi un paese a basso debito a partecipare a un simile progetto.
Il vertice europeo di Parigi tornerà a parlare, ai primi di marzo, del Patto di Stabilità: quali spazi di riforma ci sono?
Sugli spazi di riforma ho delle perplessità. Pochi giorni fa Lars Feld, il capo economista del ministero delle Finanze tedesche, ha spiegato che, ad oggi, sette paesi rispettano il criterio del debito/Pil inferiore al 60 per cento, sei lo faranno a breve. Altri (tra cui l’Italia) sono lontani. Dal suo punto di vista le regole non sono così rigide. Mi sembra una posizione netta. Magari è un punto di partenza per i negoziati. Quindi la posizione può diventare meno netta. La Germania, comunque, non è certamente l’unico paese a ritenere che le regole vanno bene così come sono. Sarà quindi difficile arrivare a una revisione radicale del patto come si aspettano le forze politiche in Italia. È possibile che resti tutto come prima. E si punterà sull’uso dei margini di flessibilità. Qui dipenderà dalla Commissione e dalla credibilità dei Paesi di mantenere gli impegni presi.
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