La lettera al Corriere
Il surreale negazionismo della Meloni, premier revisionista per non tradire la Fiamma
Non è solo reticenza, si tratta di vera e propria mistificazione. Nel solco della tradizione della destra radicale, Giorgia Meloni, nella lettera al Corriere, conferma l’estraneità storica e politica del suo partito (e, prima, Movimento) ai principi della Costituzione. A supporto delle proprie tesi cita Galli della Loggia, e si capisce bene la ragione. Lo storico è infatti il sostenitore cartaceo del revisionismo storiografico al quale come presidente del Consiglio Meloni si aggrappa con astuzia retorica per evitare di riconoscere il ruolo fondativo della guerra partigiana.
Il testo della premier si concede qualche licenza poetica sulle date. Il 25 aprile diventa così l’anniversario della fine della seconda guerra mondiale, nonché della chiusura del ventennio fascista. Ma le giornate simbolo della conclusione del conflitto furono l’8 maggio e il 2 settembre, con la resa rispettivamente della Germania e del Giappone, mentre la caduta del duce precedette di quasi due anni il 25 aprile, e proprio gli sviluppi che seguirono alla catastrofe del regime costituirono la parentesi decisiva della storia italiana con la quale Meloni evita ancora di fare i conti. Si trattò, infatti, non di una fase di vuoto politico, ma della comparsa dei partiti antifascisti e delle formazioni partigiane che si presentarono come i “moderni principi” assicurando anzitutto la linea della continuità istituzionale. Per questo è giuridicamente sbagliata la definizione della Resistenza come guerra civile. I partigiani (dai monarchici ai comunisti) rappresentavano il solo Stato legittimo sorretto da un potere coercibile. I fascisti, invece, incarnavano l’antistato, un gruppo antipatriottico crudele e agli ordini dell’occupante tedesco.
Quando Meloni recupera le parole di una partigiana friulana, per riproporre la litania sui “patrioti” come categoria metafisica, capovolge completamente il senso degli eventi. La “patria” era solo quella dei resistenti in armi, quella dei Gap, delle Brigate Garibaldi, Matteotti, Giustizia e Libertà, Osoppo, ecc. I “ribelli” in senso tecnico erano i fascisti che disobbedivano all’unico potere legittimo, quello dei partiti e delle formazioni partigiane quali custodi della statualità italiana. Per questo non si tratta di una sola festa di libertà riconquistata ma di liberazione rispetto a un occupante nazista che aveva nei fascisti i complici per negare la sovranità della nazione. Patria e nazione, cui la retorica di Meloni ricorre a dosi industriali, hanno visto proprio nei fascisti i nemici mortali e nei partigiani (non solo) rossi i ricostruttori della sovranità. Le brigate partigiane operavano come un esercito nazionale di liberazione riconosciuto come soggetto militare pienamente legittimato dalle potenze alleate. Stucchevole è poi il richiamo di Palazzo Chigi alle foibe e agli episodi di violenza che si verificarono dopo il 25 aprile. L’intenzione è la solita: descrivere i partigiani come degli sregolati, e mettere i socialisti e i comunisti al di fuori della civiltà politica.
Meloni esplicita le sue intenzioni, come sempre negazioniste della sostanza storico-costruttiva dell’antifascismo, scrivendo che quella delineata dalla Costituzione è una semplice “democrazia liberale”. Insomma, una sorta di ritorno allo Statuto, un documento giuridico che, però, per i suoi principi e regole il fascismo non ebbe neppure la necessità di abrogare. Con un chiaro intento propagandistico, che non riesce a nascondere i (dis)valori autentici a cui si ispira, il presidente del Consiglio dichiara che l’approdo alla democrazia costituzionale rappresentò un “esito non unanimemente auspicato da tutte le componenti della Resistenza”. Queste parole rivelatrici, che fantasticano su una Carta conservatrice, intendono scacciare dal ruolo di padri costituenti i socialisti, i comunisti, ma anche gli azionisti, che insistevano per verbalizzare inediti contenuti sociali all’interno della legge fondamentale. La frase di Meloni, che vorrebbe essere astuta, in realtà conferma semplicemente che la destra non si riconosce nei valori della Costituzione di Terracini, Basso e Calamandrei. Per inciso, nella stesura della disposizione più liberale dell’intero testo, l’art. 13 sull’inviolabilità della libertà personale, fondamentale fu il contributo personale di Togliatti, che ci teneva al garantismo come vitale caratteristica del nuovo Stato.
Il quadro volutamente confuso dipinto da Meloni presenta i fascisti come “chi aveva combattuto tra gli sconfitti”, cioè una delle due parti in uno scontro tra pari ed egualmente legittimati. Accanto a loro, scrive, si trovava la “maggioranza passiva” di quanti non si erano opposti al regime, che dunque godeva di vasto consenso. E in minoranza agivano le truppe partigiane, con in mente un’idea non condivisa di democrazia. Così sarebbe toccato proprio all’eroica destra missina (impossibile a credersi) “traghettare milioni di italiani nella nuova repubblica parlamentare”. Almirante, Graziani, Borghese, Rauti, i generali golpisti, gli ufficiali piduisti sarebbero i costruttori di democrazia, mentre i partiti di massa e i loro eredi avrebbero brandito “la categoria del fascismo come strumento di delegittimazione”.
L’antifascismo, per Meloni, non ha valore attuale di principio politico perché si configura al più quale “arma di esclusione di massa”. Non importa che, proprio grazie ai combattenti partigiani, l’Italia non figurò nel dopoguerra tra i paesi sconfitti al pari della Germania, che invece dovette subire umiliazioni politiche, economiche e costituzionali, oltre che simboliche. Nell’idea del presidente del Consiglio, la democrazia oggi non va inverata nel senso indicato dal progetto originario della Costituzione e sulla base dei valori che alimentarono la lontana lotta antifascista, ma rifondata secondo il “nuovo bipolarismo” sorto con la guerra in Ucraina (atlantismo revanscista della “nuova Europa” contrapposto all’europeismo del vecchio asse franco-tedesco).
Accantonando i freschissimi entusiasmi del suo partito per Putin visto come baluardo nella difesa della cristianità minacciata, Meloni saluta ora nel sostegno all’Ucraina la fonte unica della legittimazione della destra radicale. Ha in mente un nuovo Patto di Varsavia che unisca l’Italietta con le destre illiberali d’oriente. In nome dell’ostilità a “tutti i totalitarismi”, il sogno meloniano è quello di costruire una democratura per arrestare la galoppante “sostituzione etnica” e contribuire ad edificare una sfilacciata Europa delle nazioni, con poco Stato di diritto e senza autonomia geopolitica. Nella lettera ospitata dal Corriere non c’è alcun passo in avanti, solo un ritorno all’indietro nel recupero orgoglioso di una funzione democratica della destra neofascista che però non ha riscontri storiografici, politici, neanche giudiziari a dirla tutta.
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