La discussione sulla sinistra e il riformismo messa in campo dal Riformista è pregevole e utile. Ci consente di misurarci su concetti e categorie politiche, non solo su desiderata. Il riformismo sta sempre in un contesto storico-politico specifico, in quanto criterio di giudizio che dovrebbe orientare l’azione associata di cittadini verso, o in vista del raggiungimento di specifici obiettivi, per esempio la giustizia sociale o l’inclusione o l’estensione dei diritti o il controllo del potere, e così via. Ora, quale è uno degli aspetti del contesto storico-politico del nostro tempo? Il tempo presente è marcato dal populismo, sul quale sono state prodotte molte analisi sociologiche e politiche. Non tutti i populismi sono però uguali e hanno anzi una storia secolare, come la stessa democrazia.

Oggi, in Europa assistiamo all’insorgenza di un nuovo tipo di populismo che riflette alcune specificità del continente, come l’espansione della dimensione non politica o impolitica della decisione, genericamente detta tecnoburocratica o tecnocratica. In un volume sul populismo curato da Yves Méni nel 2002, questo aspetto veniva già notato quando si cercava di spiegare i caratteri anti-partitici del populismo nell’era del processo di unificazione europea, per via regolatoria e impolitica. Infine, negli ultimi anni è stata coniata, teorizzata e ben spiegata e motivata la categoria del tecnopopulismo (tra gli altri da Christopher J. Bickerton e Carlo Invernizzi Accetti). Questa non è, come sembra di capire dalla critica che Massimo L. Salvadori mi muove sul Riformista del 20 aprile scorso, un fenomeno di sostituzione della politica con la tecnocrazia; non significa un tecnico al governo. Ciò non ha nulla a che fare con il tecnopopulismo, che non è la qualità di una persona ma la forma di un sistema e una concezione del governo e della politica democratici.

La questione, insomma, non è la persona Draghi (come Salvadori mi fa dire) ma il governo Draghi. E non perché quel governo sia l’espressione di una volontà individuale, ma perché anni di integrazione di forme tecnocratiche e di forme politiche hanno avuto come conseguenza la formazione di una nuova visione dell’azione governativa e politica. Come è emerso molto bene con Emmanuel Macron, lo scopo di questa forma di governo e di politica è di federare tutte le forze anti-partitiche sotto le bandiere della competenza e della responsabilità, per superare la divisione tra destra e sinistra e infine la distinzione tra politica e tecnocrazia. In Europa, proprio per la storia della sua integrazione, la risposta tecnocratica è al populismo e alla politica dei partiti insieme. Ed è l’esito di una lettura del populismo che ne riporta le cause all’essenza stessa della politica, cioè il conflitto tra le parti. Se la causa della ‘malattia’ populista è collocata nell’iperpoliticismo e nella contrapposizione partitica, la cura verrà ad essere la depressione della politica e la riduzione del ruolo dei corpi eletti e delle maggioranze. L’antipartitismo è una soluzione, al di là di destra e sinistra, per promuovere misure che siano, dati alla mano, valide per tutti. Estendendo la sfera delle decisioni tecniche o non-politiche si doma il “noi” populista inglobandolo, rendendolo un “noi” generalista, depoliticizzato: l’interesse di tutti calcolato, gestito e validato da esperti e processi deliberativi imparziali.

In questa soluzione tecnopopulista, la concezione unitaria e monolitica del ‘popolo’ non è smontata o criticata lasciando posto al pluralismo delle rappresentazioni dell’interesse generale e al loro conflitto, secondo la logica della democrazia dei partiti. Questa sarebbe la risposta più netta al populismo. Al contrario, il ‘popolo’ populista è mantenuto; ma invece di avere la faccia e il nome di un leader o un movimento demagogico ha quella di una classe di competenti che traducono la “volontà popolare” in politiche bipartisan capaci di incorporare direttamente l’interesse di tutti, al di sopra o al di là della supposta piaga del dissenso e dell’opposizione. Il tecnopopulismo è quindi un anti-partitismo decantato degli umori demagogici e tradotto in linguaggio consensualista: propone soluzioni definite in ragione della loro traducibilità in output misurati e monitorati. La democrazia tecnopopulista assorbe e supera la differenza tra le offerte politiche e mostra come l’interesse può derivare senza passare attraverso coalizioni politiche di parte.

Stabilizzare una rappresentazione oggettiva dell’interesse della società diventa la priorità – soprattutto in un tempo emergenziale come è il nostro. E una volta tolto il pungiglione dell’ideologia e della retorica, il “noi” populista viene ad essere la base tecnica di una democrazia senza conflitti. Rispondendo a Salvadori, quindi, dire che non c’entra proprio nulla il profilo di Mario Draghi nella costruzione tecnopopulista, che non è una questione di attribuzione di qualità politiche o tecniche a qualcuno, ma il carattere di modo d’essere della democrazia. Che si situa nel contesto di un continente che da qualche decennio (beninteso per un’ottima causa) produce consociativismo tecnocratico.