Liquidare tutto con la parola demagogia forse è poco. O troppo. La nuova attenzione lanciata dal ministro Giancarlo Giorgetti e dalla premier Giorgia Meloni al “tetto” retributivo dei dirigenti pubblici merita qualche riflessione in più, oltre all’etichetta di un tributo a un grillismo non sopito. Il manager di un ente pubblico, o di un’azienda pubblica, ha qualcosa a che fare con il presidente del Consiglio? Sì, se si parla della sua nomina. No, se ci si riferisce alle caratteristiche del suo mestiere. Voler allineare la retribuzione di un alto dirigente all’indennità del capo del governo è innanzitutto un fattore illogico, privo di senso. Non solo perché il presidente del Consiglio è quasi sempre un parlamentare, e quindi somma l’indennità di carica a quella del rappresentante del popolo italiano. Non si tratta esattamente di noccioline. Ma soprattutto uno è un incarico al servizio del paese, di carattere politico, elettivo; l’altro è un impegno professionale che diventa di servizio per il paese.

Il tetto per i manager pubblici

Il tetto agli stipendi pubblici, introdotto nel 2011 con il decreto “Salva-Italia” del governo Monti, con l’esecutivo Renzi ha visto ampliato l’ambito di applicazione nel 2014. Nel 2022 il governo Draghi ha provato inutilmente a escludere alcune figure di alto profilo da questi limiti. Senza successo. All’apparenza. Ma se poi andiamo a vedere quanti dirigenti di società pubbliche o enti pubblici siano rimasti sotto la soglia dei 240mila euro (il tetto vigente, in attesa delle novità annunciate in Legge di Bilancio) avremmo delle sorprese. Le modalità per derogare a questo diktat sono state molteplici, anche perché il “perimetro” della norma è sempre rimasto generale, quindi generico. Si è iniziato a disquisire sulle società pubbliche quotate e non quotate, quelle inserite in una competizione di mercato irriducibile, e così eccependo. Il vero effetto del Salva-Italia e conseguenti azioni di “spending review” si è consumato sui dipendenti del pubblico impiego, non sui dirigenti. L’Aran ha fatto da buon cane da guardia, intercettando solo una parte del problema.

Il tetto contro lo sviluppo del merito

Il governo Meloni ha fatto della meritocrazia un punto di vanto. Ma non è bastato “intestare” persino il nome di un ministero alla parola “meritocrazia”: ogni volta che si introduce un tetto retributivo si va, nei fatti, contro lo sviluppo del merito. Considerare la norma – in realtà la proposta, l’annuncio, l’intenzione – sul tetto retributivo dei dirigenti pubblici una misura di “buonsenso” è un errore ulteriore. Non solo perché agli esecutivi spetta di andare oltre il buonsenso – il buonsenso somiglia troppo alle buone intenzioni, di cui si sa, si trova lastricato l’Inferno – ma perché non si vede perché limitare la retribuzione di un bravo manager sia un’azione virtuosa. Da anni si fanno proclami sulla necessità di arruolare i “migliori” per rinnovare le risorse umane applicate alla Pubblica amministrazione per assicurare ai cittadini più efficienza e servizi adeguati; il “merito” è una parola congruente con questo obiettivo, ma il merito non può sottrarsi al mercato.

La selezione al contrario: la fuga dei cervelli dalla pa

Difficile dare torto a chi vede in questo eventuale provvedimento una selezione al contrario: i migliori finiranno per lasciare la PA, inevitabilmente. Il mercato è uno, la competizione è una. Finiremo per stracciarci le vesti come quando vediamo la solita “fuga di cervelli”. Non solo, basta prendere la retribuzione di un infermiere per spiegarsi perché ce ne siano così pochi in Italia. A Lugano guadagnano il doppio. E magari non sono nemmeno picchiati dai parenti dei pazienti. Il criterio è lo stesso: per assicurarsi i “migliori” occorre creare le condizioni perché i migliori scelgano il nostro paese e, nel nostro paese, possano considerare opportuna e vantaggiosa un’esperienza nella Pubblica amministrazione.

Un bravo manager, se è bravo davvero, fa funzionare meglio la sua organizzazione – che si tratti di un ente pubblico o di una società pubblica, o in qualche perimetro pubblico, che definire non sarà facile – assicura servizi migliori e una soddisfazione crescente nei cittadini utenti (e consumatori). Non dovrebbe essere questo l’obiettivo di una buona Pa? Tutto il resto rischia di essere fumo negli occhi, utile per distrarre un po’ di attenzioni dalle questioni più calde del Bilancio e delle scelte di governo. Discutete, discutete, qualche cosa resterà, per parafrasare Voltaire.