Sono lontani i tempi in cui, analizzando il processo penale nel suo momento tecnicamente più delicato, Francesco Carnelutti coglieva un risultato di una certa importanza per la civiltà, quale la «riabilitazione degli avvocati» (Le miserie del Processo Penale, Torino 1947, pp. 37 ss.). Recenti vicende, sulle quali tornerò in seguito, e a prescindere dal coinvolgimento di noti avvocati in procedimenti penali nella veste di imputati per rapporti, considerati, almeno nella prospettiva dell’accusa, poco o nulla ortodossi, ribadiscono nei fatti come quella dell’avvocato sia una delle figure più discusse nel quadro sociale. A partire dalla seconda metà del secolo scorso, salvo rare e lodevoli eccezioni, la letteratura giuridica è progressivamente e, alla fine, irrimediabilmente scaduta ad ars poetica da tirapiedi.

Ciò è ascrivibile, innanzi tutto, alla deriva della «scienza della legge», già magistralmente descritta nei primi decenni del Cinquecento, là dove si sostituisca all’«autorità» dei dottori quella dei precedenti giurisprudenziali, dal Francesco Guicciardini dei Ricordi (BUR, 1984, C-208, p. 178): se nella decisione di una causa è «da uno canto qualche viva ragione», dall’altro l’autorità di un precedente «più si attende nel giudicare»; questo implica che l’operatore impieghi il tempo che, invece, «sarebbe a mettere in speculare» proprio nella ricerca dei precedenti: «così quello tempo, si consuma in leggere (almagesti giurisprudenziali) con stracchezza di animo e di corpo, in un modo che l’ha più similitudine a una fatica di facchini che di dotti». Ed è ascrivibile, altresì, alla proliferazione di retori ai quali, per dirla con Tito Castricio, «è consentito usare argomenti falsi, audaci, inventati, subdoli capziosi, purché siano verosimili e possano, con qualche astuzia, influenzare gli animi da commuovere degli uomini», e reputano «turpe» se in una «cattiva causa» lasciano qualcosa trascurato e indifeso (Aulo Gellio, Noctes Atticae, 1, 4).

Comprensibile, dunque, perché oggi sembrino suonare ai più come moneta falsa i rilievi di Francesco Carnelutti per il quale «un uomo, per essere giudice, dovrebbe essere più di un uomo», e perché appaiano altresì ormai jou de mode ai più le spiegazioni in proposito del grande giurista, tanto che, in nome del mito dell’efficienza, è stato sostanzialmente abbandonato il «correttivo» ispirato dall’insufficienza del giudice, vale a dire il collegio giudiziario quale «rimedio» suggerito dall’esperienza, troppo spesso sostituito da quella contradictio in adiecto che è il «tribunale monocratico», là dove, peraltro, non si tiene più in alcun conto la parzialità dell’uomo, che è invece il punto di partenza per capire. Vale, comunque, la pena di ripercorrere, sia pure in via di rapidissima sintesi, il limpido argomentare del grande penalprocessualista, risalente a quando era ancora vigente, nella versione originaria, l’arcigno codice di rito penale fascista. Proprio per la sua parzialità, egli sostiene, nessun uomo arriva ad afferrare la verità, essendo quella che ciascuno ritiene la verità null’altro che un aspetto di essa, «qualcosa come una faccetta di un diamante meraviglioso». Se, dunque, «La verità è come la luce o come il silenzio, i quali comprendono tutti i colori e tutti i suoni, dove, tuttavia, la fisica ha dimostrato che il nostro occhio non vede o il nostro orecchio non ode che un breve segmento della gamma dei colori o dei suoni», ciò spiega il modo di dire «il giudice stabilisce chi abbia ragione». Come la verità, la ragione è infatti una sola, ma nel processo ciascuna delle parti dice le sue ragioni, quelle per le quali vengono chieste, a seconda di chi ne sia rispettivamente il portatore, tanto la condanna quanto l’assoluzione.

Se ragionare significa porre delle premesse e trarne delle conclusioni, l’accusatore e il difensore sono due ragionatori, ma il loro è un ragionare in modo diverso da quello del giudice; essi ragionano «a rime obbligate», poiché ognuno deve cercare le premesse per arrivare a una conclusione obbligata. Le parzialità del difensore e del suo avversario, che si contrappongono dialetticamente, sono il prezzo da pagare per ottenere l’imparzialità del giudice, «che è poi il miracolo dell’uomo, in quanto, riuscendo a non essere parte, supera sé stesso». Tutto ciò potrebbe sembrare assurdo, ma è proprio qui la chiave del processo: guai se il giudice, in presenza di prove apparentemente lampanti della colpevolezza o dell’innocenza, condannasse o assolvesse senza continuare nell’indagine fino ad averne esaurito tutte le risorse. Ovvio che, per fare questo, il giudice debba essere aiutato, non potendo riuscirci da solo, e il suo «aiutante naturale» è il difensore, il quale, tuttavia, avendo l’interesse di cercare le ragioni utili a dimostrare l’innocenza dell’accusato, è sì un aiutante prezioso per il giudice, ma anche un aiutante pericoloso, a causa della sua parzialità, così che, per renderlo innocuo, gli viene contrapposto quel ragionatore altrettanto parziale in senso inverso, che è il pubblico ministero, il quale meglio sarebbe, dunque, chiamare accusatore.
È certo uno «scandalo» quello delle due verità, della difesa e dell’accusa, ma il giudice ne ha bisogno, affinché scandaloso non sia il suo giudizio.

Neppure nei momenti più convulsi della storia, si è mai proposta, per esempio, la soppressione dei medici o degli ingegneri, ma quella degli avvocati sì; e, talvolta, come nei periodi più bui dell’Inquisizione, si è riusciti anche a sopprimerli, sebbene, fortunatamente, siano poi subito risorti. Eppure, ancora oggi, è tragicamente sin troppo facile incontrare sostenitori della massima secondo cui «plerumque propter enormitatem delicti licitum est iura transgredi», così «in puniendo» come «etiam in procedendo», là dove, naturalmente, i crimini atroci che legittimerebbero la violazione del principio di legalità della pena e anche delle regole processuali non sono più, come un tempo, le eresie o i traffici col demonio, ma il terrorismo, la mafia, e la corruzione. In fondo, il sistema inquisitorio tende a riprodursi: ingerisce idee, restituisce formule, fabbrica le proprie creature, tutte uguali, omuncoli nella provetta di un mago: come l’Inquisizione con la «I» maiuscola anche l’odierna inquisizione con la «i» minuscola dispone di reggicoda, turiferari, consolatori, prefiche, necrofori, scomunicatori, apologeti, dottori, falsari, pedagoghi, libellisti, araldi, agiografi, esegeti, casuisti, cortigiani, cicisbei, mezzani, bottegai, sensali, barattieri, plagiari, aguzzini, legislatori, spie, censori, sbirri, carcerieri, flagellatori, carnefici.

Per fortuna, anche fosse dieci volte più numeroso, questo smisurato esercito lavora sempre in perdita, come i giocatori che puntano il pari, il dispari e lo zero. Alcuni casi clinici la dicono più lunga di pur raffinatissime costruzioni teoriche. Un’ulteriore premessa è, comunque, d’obbligo. Sebbene l’art. 24 comma 2 della Costituzione riconosca solennemente che «La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento», vi è chi, non dandosene per inteso, alimenta campagne denigratorie contro gli avvocati, adiuvante, peraltro, un difetto della macchina processuale, che anche per questo funziona male: a differenza del difensore, il pubblico ministero è concepito come ragionatore imparziale, sebbene, nove volte su dieci, la logica delle cose lo trascini a essere l’antagonista del difensore. Anni or sono, si diede il caso di un avvocato che svolgeva con coraggio il proprio mestiere, per ciò oggetto di critiche, di sospetti, di pedinamenti, in indagini sempre archiviate, avendo assistito per anni quelli che tutti consideravano i peggiori: dal fattore di Arcore, Vittorio Mangano a Giovanni Pullarà, dal Papa della mafia, Michele Greco, a Bernardo Provenzano; secondo la vulgata popolare era un «avvocato di mafia» o l’«avvocato del diavolo», come lo definì un noto giornalista, in un memorabile articolo apparso su un importante quotidiano nazionale.

Più di recente, a prescindere dal caso del difensore le cui conversazioni con l’assistito, indagato, ma archiviato, non solo sono state proditoriamente intercettate, ma anche illecitamente trascritte e poi depositate dal procuratore generale della Cassazione agli atti di un procedimento disciplinare a carico di un terzo, in barba all’exclusionary rule di cui all’art. 103 comma 7 del codice di procedura penale, senza che la Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura vi abbia trovato nulla da eccepire, mi è capitato d’imbattermi nelle vicissitudini di due avvocati milanesi, posti di fronte all’interrogativo, come possa un avvocato, nell’esercizio del ministero della difesa, dissociarsi dal proprio assistito nei confronti del quale sta profondendo ogni sforzo al fine di difenderlo al meglio. Tutto nasceva da un complesso contenzioso civile, con risvolti penali a carico dell’assistito.

A tacere caritatevolmente del garbo del giudice penale di primo grado, il quale dopo aver manifestato a più riprese il fastidio durante tutto il corso delle arringhe difensive, sino all’abbandono, bofonchiando, dell’aula di udienza, mentre l’esposizione era ancora in corso, è da rimarcarne, invece, la decisione di trasmettere gli atti alla procura della Repubblica per valutazioni circa l’esercizio dell’azione penale nei confronti dei difensori, rei di non essersi dissociati dalle dichiarazioni del proprio cliente, in virtù del principio, Dio sa da dove esatto, che gli avvocati che non si dissociano dalle dichiarazioni del proprio assistito e che le fanno proprie nelle arringhe difensive, seppur con «toni solo apparentemente più pacati ed urbani», concorrono nel reato della persona che difendono. Il fatto che si giunti a tanto è esemplare dell’insofferenza di certa magistratura per «quei Cirenei della società», sono ancora parole di Francesco Carnelutti, che «portano la croce per un altro e questa è la loro nobiltà».

Avatar photo

Giusfilosofo e magistrato in pensione