California, l’esatto punto in cui mare, deserto e cielo convergono, appesantiti da un orizzonte cesellato da un sole di rame. È la frontiera, o meglio: la fine della frontiera storica.

Quando migliaia di settlers sciamarono qui, nel pieno dell’ottocento, il loro viaggio incontrò per la prima, vera volta, il segno della finitudine incarnato da quella massa d’acqua blu cupo chiamata Oceano. La California è l’ologramma scovato da Jean Baudrillard nelle pagine neon di ‘America’: copia che origina da nessun originale, che assembla la propria identità in un conglomerato bituminoso di cinema, musica, visioni del deserto, alta tecnologia, cultura psichedelica, religiosità. La Silicon Valley, non-luogo imbevuto di silicio e caos, desolazione ricombinante di genialità e di post-politica, non poteva che germinare alla latitudine californiana, per sintetizzare il senso oscuro di un limite da abbattere. Né il cielo, né lo sciabordare di quell’oceano costituiscono barriera invalicabile per chi si è stabilito qui. E nelle reti, nei cavi, nei transistor, nell’agglomerazione accelerata della Contea di Santa Clara, originano non soltanto nuove forme tecnologiche ma anche forze politiche e istituzionali radicalmente altre rispetto quelle della contemporaneità storica.

È il vento elettronico della secessione e della frammentazione. Il rimpicciolimento degli spazi per ottenere, alchemicamente, l’irrobustimento della libertà.

Nel 2013, il magnate e venture capitalist Tim Draper formulò il progetto delle Six Californias, una frammentazione giuridica e spaziale della California in sei spazi autogovernati. La Silicon Valley, in questa prospettiva, sarebbe divenuta uno Stato autonomo, autoregolato, e con un proprio sistema di tassazione.

Ciò che non era ancora riuscito a fare la Faglia di Sant’Andrea, sembrava intenzionato a fare il mondo algoritmico delle grandi piattaforme digitali. Cui quella stasi ossificata di un governo federale, così ampio, esteso, innominato e fiscalmente opprimente sembra stare stretto.

L’opzione di Draper si è tradotta in un referendum ed è stata bocciata dagli elettori nel 2016. Ma ciò non ha impedito a simili idee di proseguire la loro marcia.

L’idea della secessione, nascita di comunità autonome sempre più piccole e tecnologizzate, e spesso collimanti con la dimensione individuale, rimontanti concettualmente alla visione liberale e libertaria dell’individualismo metodologico, da von Mises al Rothbard di ‘Nations by consent’, è molto cara alla Silicon Valley.

Fallito il progetto della autonomizzazione della Silicon Valley, non è però cessata l’idea della creazione di spazi micro-comunitari in cui l’innovazione tecnologica finisce per collimare con nuove ipotesi di organizzazione sociale.
È il paradigma del ‘seasteading’ caldeggiato da Patri Friedman, figlio del teorico anarco-capitalista David e nipote del Premio Nobel Milton, e ampiamente finanziato da Peter Thiel: isole iper-tecnologiche connesse tra loro e del tutto fuori dalla sovranità statale americana, enclave oceaniche digitalizzate capaci di rendersi Stati privati loro stesse. Una sorta di Isola delle Rose di silicio e utopie hi-tech.

O quello delle Innovation Zones, città integralmente private modellate sulla forma già esistente delle company towns. Lo stesso Elon Musk, a quanto pare, ha in progetto di realizzarne una. Dall’altisonante nome di Starbase, fondata sulle rovine argillose di Boca Chica, nel cuore del deserto texano.

Città in cui ogni funzione è esercitata da soggetti privati, e con lo Stato che, esattamente come all’epoca della Frontiera, rimane fermo lungo la cornice per dettare minimali regole di base.
Utopia? Non del tutto.

Come ha dimostrato Robert C. Ellickson nel suo ‘Order without Law’, ordini sociali privati basati su norme morali e sociali, più che su canoni giuridici, sono esistiti e, va detto, sembra che l’alta tecnologia finisca per valorizzare questi paradigmi.
È l’essenza stessa della Frontiera. Di quella storica e di quella digitale.

Andrea Venanzoni

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