Sappiamo, dalla storia del femminismo, che sono state in passato, e in alcuni casi ancora oggi, le donne stesse a fondare la richiesta di democrazia paritaria su quella categoria di “genere” per cui sono state escluse dalla polis, considerate per “natura” inadatte a rivestire responsabilità intellettuali e morali proprie soltanto di chi è persona, individuo. Ma sappiamo anche che, quando si parla di “quote rosa”- e avviene in ogni tornata elettorale – sono molte a non volersi più pensare come parte di un tutto omogeneo e, tanto meno, di un gruppo sociale bisognoso di tutela e riconoscimenti negati per secoli. La frase che si sente ripetere più spesso è “Non siamo una specie rara da proteggere”. La contrapposizione genere/individuo non è una novità, viene da lontano, parla la lingua del sesso vincente e della distanza che ha creduto di poter mettere tra la sua libertà, destinata al governo del mondo, e la sua dipendenza dalla materia che, attraverso il corpo della madre lo consegna ai limiti biologici degli altri viventi.

Avvalersi della categoria del “merito individuale” o, al contrario, rivendicare un’equa spartizione del “potere”, senza analizzarne l’origine e le forme che vi ha impresso sopra il lungo dominio maschile, significa tornare al dilemma senza via d’uscita tra “uguaglianza e differenza”, ridurre un problema di relazione tra i sessi al “valore/disvalore” di uno solo. Riuscire a pensarsi come un soggetto “femminile plurale”, capace di porre la propria individualità senza cancellare ciò che ha significato l’appartenenza a un “genere”, è stata la svolta portata dal femminismo degli anni 70 alla coscienza storica. È solo partendo da sé, dall’esperienza e dalle relazioni personali che si può, affrontando inevitabili conflitti, ritrovare tra uomini e donne fiducia reciproca. Io non nego l’importanza della presenza femminile nei “luoghi dove si decide”, è sul modo di arrivarci che sollevo critiche e perplessità. Le “quote”, anche se riconosciute, sono una resa alla logica dello svantaggio da colmare e di una parità che presuppone un metro maschile di confronto posto a priori.

Se le donne che vogliono entrare nelle istituzioni ponessero da subito, senza temere le contrarietà a cui vanno incontro, condizioni dove è evidente il rapporto uomo-donna in tutti i suoi aspetti, dal modo con cui si fanno le leggi a come si intende la rappresentanza, ecc., otterrebbero sicuramente un largo consenso presso altre, deluse dalla facilità con cui le loro simili si omologano a modelli già dati pur arrivare a un posto di rilievo. Tutto ciò che si ottiene per benevola concessione, per solidarietà o per adeguamento a ciò che è “politicamente corretto”, non è senza prezzo e, soprattutto, a mio avviso, non è da lì che passa un cambiamento reale e duraturo della convivenza tra i sessi. Non vedo perché un presidente di regione o provincia, un sindaco, un presidente del consiglio non dovrebbero desiderare nella loro squadra donne che hanno scelto e perciò legate a loro da gratitudine, preoccupate perché conservino quel ruolo.

Quando è cominciata, anni fa, la campagna dell’Udi per il “50&50 ovunque si decide”, pur con qualche riserva ho aderito, precisando che lo consideravo solo un modo per rompere simbolicamente il monopolio dei poteri decisionali o, se vogliamo, del governo del mondo da parte maschile. Visto l’uso che in seguito se ne è fatto, sono tornata su posizioni critiche. Se manca la consapevolezza che le “discriminazioni”, gli innumerevoli “svantaggi” femminili nella vita pubblica dipendono dai ruoli di genere e dalla divisione del lavoro che da essi ha tratto finora la sua legittimazione “naturale”, le donne possono solo tentare con fatica di fare propri linguaggi, competenze, poteri, creati in loro assenza e svincolati dai bisogni essenziali della conservazione della vita.

L’idea che fosse necessario un processo di liberazione da modelli interiorizzati forzatamente dalle donne stesse è emersa molto prima della rivoluzione femminista degli anni 70. Scriveva Sibilla Aleramo: «Per conquistare questa necessaria stima dei miei fratelli, io ho dovuto adattare la mia intelligenza alla loro: capire l’uomo, imparare il suo linguaggio, è stato allontanarmi da me stessa (…)» (Sibilla Aleramo, Andando e stando, Mondadori 1942). Sappiamo che la storia torna continuamente sui suoi passi. Si può solo sperare che non si limiti a replicare il già noto, e apra invece la strada a sviluppi nuovi e imprevisti.

Prima ancora di inscrivere in una legge elettorale la parità numerica tra due sessi, sarebbe necessario cambiare uno dei pilastri della cultura e dell’immaginario maschile, e cioè l’articolo 37 della Costituzione in cui, da un lato, si dice che “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”, e, dall’altro, che “le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare”. Il soggetto, la figura di riferimento, su cui viene misurato lo svantaggio da colmare, affinché non vi siano discriminazioni, è il “lavoratore”. Qui non c’è l’equivoco del neutro: parlando di lavoratrice e lavoratore è chiaro che si tratta di due sessi, ma già nel modo in cui sono nominati c’è qualcosa di più della semplice connotazione sessuale. Da una parte c’è la “donna lavoratrice”, dall’altra soltanto il “lavoratore”.

Il soggetto femminile ha dunque una duplice fisionomia, due volti, due appartenenze: una è quella che viene dalla sua inclusione nella sfera produttiva, e che la assimila nella parità dei diritti e della retribuzione al modello maschile. In questo caso l’uguaglianza comporta la cancellazione dell’appartenenza a un sesso, che ricompare, invece, come “differenza ” quando si parla di quello che è stato considerato il compito “naturale” della donna, in quanto “genere”. Visto dal versante del suo destino domestico, il lavoro appare solo una aggiunta, un elemento secondario, sia in ordine di tempo, che di significato e valore. Uguaglianza e differenza: è il dilemma, senza via d’uscita, che la modernità ha messo sulle spalle delle donne, per non dover ammettere che non si tratta semplicemente del divario rispetto a un ordine già dato, ma della messa in discussione di quello stesso ordine che ne è la ragione prima.

Finché le “condizioni di lavoro”, così come costruite dai sistemi economici e politici maschili, si pensano svincolate dalla riproduzione della società – cura, conservazione della vita, ecc.- solo perché questo sarebbe compito e responsabilità dell’altro sesso, non ci sarà numero di seggi parlamentari femminili sufficiente a garantire alle donne la libertà di esprimere a pieno la loro umanità, e agli uomini di procedere meno soli e distruttivi nel governo del mondo.