Dopo la diffusione della pandemia, la Cina rischia di avere un altro brutto risveglio perché la sua vulnerabilità potrebbe trasformarsi in una occasione storica per l’Africa. «In chiave retorica – spiega David Mwambari, docente di African Security al King’s College di Londra – davanti al Coronavirus l’Africa non è più il continente che diffonde le malattie o quello della morte». Per una volta, mentre subisce un’epidemia, guarda al resto del mondo che paga a caro prezzo la sua impreparazione e fa i conti con la sua presunta invincibilità, oggi uscita sconfitta. E se niente sarà più come prima, allungando lo sguardo al dopo-emergenza sanitaria, per il grande Continente africano quella che si potrebbe profilare è una preziosa occasione di “de-colonializzazione”. «La dipendenza mondiale dalla Cina – scrive Abdou Souleye Diop, socio di Mazars Maroc, che si occupa dello sviluppo del continente per imprese e governi – oggi ha dimostrato tutti i suoi limiti».

La catena degli approvvigionamenti, quelli sanitari in primis, non è stata garantita per nessuno, ma se la Cina si ferma, all’Africa serve davvero un piano B e la possibilità di metterlo a punto c’è ed è concreta. Quello che probabilmente la narrazione occidentale tralascia di evidenziare è che i 54 paesi africani hanno storie diverse e sebbene 33 di questi siano i meno sviluppati al mondo, prosegue il ragionamento Abdou Souleye Diop, la pandemia sanitaria ha messo tutti in una sorta di posizione di vantaggio riaccendendo la loro capacità di resilienza e di reazione.

La rivista scientifica The Lancet ha evidenziato come l’impatto di questa epidemia sarebbe devastante soprattutto nella parte occidentale dell’Africa, là dove si trovano 9 tra i 25 paesi più poveri del mondo; ma quello che la storia recente ha dimostrato è che gli stati africani, nel loro complesso, sono più reattivi di fronte a situazioni di questo tipo. La sanità senza dubbio non è all’altezza dell’emergenza, ma anche il resto del mondo sviluppato ha dimostrato le sue lacune. Quello che, auspicabilmente, potrà invece dimostrare la sua efficacia in Africa è la tempestività con la quale sono state immediatamente introdotte tutte le misure barriera necessarie, senza mai sottovalutare il pericolo.

Forti di queste premesse, i paesi africani dovrebbero guardare all’obiettivo finale con più coraggio, il ragionamento di Abdou Souleye Diop che inanella alcuni esempi a suffragio della sua analisi. La lunga esperienza nella gestione di epidemie come l’Ebola del 2015 o la Zika nel 2018 hanno creato un protocollo che, associato al vantaggio temporale di cui l’Africa gode oggi, potrebbe funzionare. Inoltre, l’evidenza dimostra come il Covid-19 arrivi per lo più dal traffico aereo internazionale che, però, in Africa si concentra solo su alcune regioni risparmiando spesso le più povere, ha sottolineato The Lancet.

Così il Marocco ha chiuso le frontiere con Francia, Italia e Spagna il 13 Marzo, al settimo caso rilevato sul territorio; il Senegal, la Costa D’Avorio il Camerun lo hanno fatto subito dopo, mentre l’Unione Europea interveniva dal 17 Marzo, con l’Italia che contava già 31.506 casi positivi e 2.503 morti e la Francia non era da meno.  Mentre gli Stati chiudevano, le imprese hanno potuto “prendere coscienza della loro autosufficienza” rendendola subito più efficace. Alcuni materiali sanitari che la Cina non mandava più, ad esempio, venivano prodotti da un’azienda del Kenia che si è organizzata per fornire mascherine con un ritmo di 30.000 al giorno.

Il punto di svolta, secondo David Mwambari, è che l’Africa deve smettere di essere il luogo di estrazione dei materiali grezzi da passare a Pechino che restituisce prodotti finiti; ma deve diventare quello della trasformazione che garantisca la sua autosufficienza e l’export. Un continente dove il 90% del business è fatto di piccole e medie imprese dovrebbe cominciare a fare squadra puntando su ecosistemi di filiera. Il Marocco ad esempio dovrebbe rinforzare il tasso di integrazione nell’aeronautica e nell’elettronica, l’Etiopia in cuoio e tessile, tutti, possibilmente, sul turismo interno. Ancora, la Nigeria, che rappresenta la più grande economia africana grazie al petrolio, ha creato un polo per guidare la risposta alle epidemie e ai problemi di salute pubblica: il Nigeria Centre for Disease Control (Ncdc). Il Coronavirus, oggi, sta colpendo prima e soprattutto le élite che viaggiano e che non potranno scappare a Londra o negli Stati Uniti per farsi curare, quindi la speranza è che adesso il centro possa godere dei finanziamenti che finora sono mancati, per poter crescere anche a livello internazionale.

In Zimbawe, la confederazione degli industriali si è fatta carico di finanziare la sanità pubblica e di attivare strutture abitative e infrastrutture di rete, soprattutto basate sul solare, per garantire continuità al lavoro. Un investimento e un patrimonio che resterà anche domani. Il tassello finale per dare la svolta è la necessità di una grande solidarietà da svilupparsi tra gli stati africani, mancata all’inizio della pandemia, ma che oggi esiste e potrebbe diventare la leva per sancire la fine della dipendenza coloniale anche dalla Cina. Le basi ci sono, a partire dall’Afcta, l’accordo sottoscritto da 29 paesi, che ha istituito la zona di libero scambio continentale tra 54 delle 55 nazioni dell’Unione Africana e che è attiva da un anno.

Un ottimo punto di partenza che deve accelerare la sua azione, spiega David Mwambari ricordando come il trattato sia nato proprio con l’idea di privilegiare le relazioni interne su quelle con i “paesi colonizzatori”. A questo andranno aggiunti interventi finanziari e fiscali sulle corporazioni straniere che varrebbero miliardi di dollari ogni anno, oltre all’interruzione della dipendenza dell’Africa dai prestiti che hanno costretto i governi a misure di austerità e hanno impedito lo sviluppo in loco. «Basta con i salvatori che vengono da lontano per risolvere i problemi dell’Africa», chiosa Mwambari, spiegando che il continente ha abbastanza talenti, esperti e potenzialità per farcela da solo. Sorprendentemente potrebbe dimostrare che lo farebbe anche meglio degli stranieri, lasciando fare a Pechino i suoi conti con la storia.