Fratelli d’Italia, l’Italia s’è data. Tradotto in europeo: ha fatto perdere le sue tracce, è sparita e non si sa bene dove sia finita. Sbagliare le scelte non è il peggio che possa capitare. Si possono in più sbagliare i tempi, facendo dietrofront quando si tratta di tener duro per cogliere i frutti di ciò che abbiamo scelto in passato. Due anni e mezzo di solidarietà all’Ucraina, per poi fare marcia indietro quando, per la prima volta, nella sua disperata resistenza Kiev inizia a intravedere uno spiraglio.

Siamo così abituati alle furbate della serie “ragazzi, qui si mette male”, da non distinguere più se per caso invece proprio ora forse si può metter bene. E per seguire questa sbilenca traiettoria usiamo parole senza un reale senso logico. Diciamo che la mossa di Kiev “allontana la pace” (il ministro Crosetto), mentre, al di là dei proclami a fini interni, ora il Cremlino inizia a capire che andare avanti può costargli caro. Diciamo “no ad armi italiane per attaccare la Russia” (il ministro Tajani), un minuto prima di dire che vogliamo la Russia al tavolo della pace e non della resa, che invece era l’unico concepito da Putin. Diciamo che “è inaccettabile invadere uno Stato” (vicecapogruppo al Senato FdI, Speranzon), riferendoci incredibilmente non alla Russia ma all’Ucraina, che alza la testa dopo 30 mesi di bombardamenti e massacri. E per carità di patria, non parliamo dell’opposizione, dove il sempre agguerrito partito “della pace” (dei cimiteri) trova sempre più frequente sponda in Elly Schlein.

L’Italia chiusa in un cantuccio

D’altra parte, bisogna pur far digerire a Conte la relazione extraconiugale con Matteo Renzi… E si sa che i sondaggi sul sostegno italiano alla difesa dell’Ucraina sono piuttosto impietosi: per rispondere all’ormai celebre esortazione di Mario Draghi, con il caldo che fa, meglio tener accesi i condizionatori che spendere soldi per quelle terre slave e lontane. Poi però c’è la politica. Dopo il voto contrario alla von der Leyen, non è solo il governo ma l’intera Italia politica a rinchiudersi in un cantuccio, distante dai grandi paesi europei e dagli Stati Uniti. Di fronte all’evidenza di un atto militare che non rappresenta un attacco ma una declinazione della difesa, che non rappresenta un atto di guerra ma un atto indispensabile per ridurne l’impatto distruttivo e accorciarne i tempi, uno dei paesi fondatori dell’Europa e della Nato si imbosca come un impiegato delle commedie all’italiana. Ma dev’essere chiaro che queste movenze da pacifinti non disegnano una strategia, piuttosto la negano.

L’Italia non è mai stata neutrale

La neutralità è una posizione nobile e a volte saggia, e ci sono paesi che su questa hanno costruito la loro prosperità. E non va certo trascurato il valore della prudenza e della politica delle “porte aperte”, specie per un paese di frontiera fra nord e sud e fra est e ovest. Ma il guaio è che noi neutrali non lo siamo, non lo siamo mai stati. In nessun regime. Non lo eravamo nel 1914, “panciafichisti” e dilaniati fra interventisti e neutralisti mentre il governo trattava con entrambi i fronti della guerra. Non lo eravamo un quarto di secolo dopo, quando Mussolini – per decidere il da farsi – aspettava di conoscere il vincitore per poi compiere l’errore fatale. Non lo siamo stati l’8 settembre né tantomeno dal 1945 ad oggi, nonostante le sbandate ogni volta che le varie polveriere globali si incendiavano: il canale di Suez, i missili a Cuba, le guerre in Medio Oriente, la dissoluzione della Jugoslavia, i rapporti con la Russia e la Cina.

Un passo di lato, la tattica per sopravvivere

Sempre un passo indietro, sempre un passo di lato. È una regola della vita, un complesso della nostra mente che si irradia nella politica, per definizione grave ma non seria (by Ennio Flaiano). Proviene forse da una storia millenaria di divisioni e dominazioni straniere, che ci ha inculcato la tattica come unica ancora di sopravvivenza. E i sondaggi pesano, eccome. Ma c’è pure un italiano speciale, Alessandro Manzoni, che scriveva: “Il buon senso c’era, ma se ne stava nascosto per paura del senso comune”. Si riferiva ai milanesi che negavano l’esistenza della peste. Ma può estendersi agli italiani che preferiscono negare l’esistenza delle dittature e delle loro guerre di annientamento.