È difficile negare che l’immigrazione evochi uno scenario di contrapposizioni radicali. Per il senso comune rappresenta uno sconvolgimento del quadro sociale: oltre a richiamare un ignoto mondo esterno, si profila come una minaccia per l’ordine simbolico e culturale all’“ecosistema sociale” e per l’identità nazionale, ossia per l’appartenenza che si fonda sulla omogeneità della discendenza che dipende dalla nascita, dalla lingua o dalla religione. In questo senso, l’immigrato rappresenta il simbolo più vistoso delle difficoltà che le società avanzate incontrano nel costruire nuove forme, più flessibili e inclusive, di appartenenza.

Non c’è cultura in movimento

Non poche di queste difficoltà nascono però da un equivoco, ossia dalla convinzione che i migranti siano gli esponenti di una cultura in movimento, un microcosmo rappresentativo di una qualche appartenenza predeterminata – quando invece sono gli esseri umani che migrano, non le culture. Il risultato è che le relazioni tra esseri umani differenti vengono considerati nella prospettiva di un rapporto tra culture differenti – quando invece a incontrarsi o a scontrarsi non sono le culture, ma le persone. L’impiego abusivo del concetto di “cultura”, nel caso degli immigrati, è trasparente, poiché è la loro stessa esistenza a contraddire l’idea che gli individui possano essere ricondotti a delle singole “unità” culturali. Sia perché giungono da paesi diversi tra loro, sia perché non esprimono appartenenze immutabili, bensì mutevoli. Un soggetto che si sposti da uno Stato a un altro, per scelta o per necessità, può infatti modificare l’appartenenza che gli viene ascritta, diversificare le affiliazioni, praticare lealtà multiple. E tuttavia, l’equivoco di partenza porta molti a concludere che sia necessario innalzare barriere all’entrata, sigillare i confini, far coincidere le frontiere politiche con le frontiere nazionali.

L’idea ricorrente, dunque, è che l’immigrazione non minaccerebbe soltanto la coesione sociale, ma anche l’identità del paese di destinazione. Ciò spinge politici e osservatori a invocare l’esigenza di identità condivise quale unico antidoto alla minaccia di disgregazione portata dai nuovi arrivati. Nella versione più liberale, questo argomento si limita a proporre che gli immigrati adottino l’identità nazionale del paese ricevente quale loro appartenenza primaria. I nuovi arrivati possono continuare a conservare la propria fede islamica e al tempo stesso diventare italiani, francesi o tedeschi. Continuare a considerarsi romeni o albanesi se imparano a rendere la loro identità compatibile con un’altra identità nazionale dominante. Ai romeni o agli albanesi che vivono in Italia si chiede di diventare italo-romeni o italo-albanesi, proprio come è stato fatto dagli italiani emigrati negli Stati Uniti, divenuti cittadini italo-americani pienamente leali nei confronti del paese che li ha accolti.

Stato di diritto e diritti umani

Il sospetto che aleggia su questo modello di integrazione riguarda la lealtà politica dei nuovi arrivati, perché si teme che possa andare a comunità politiche collocate al di fuori della sfera di influenza dello Stato di accoglienza. Agli immigrati non si chiede perciò di limitarsi a condividere l’identità nazionale dello Stato di accoglienza, ma di accettarla come prevalente rispetto a ogni altra appartenenza, specialmente in caso di conflitto. Dal momento però che le nostre società stanno diventando multietniche, ragionare in termini identitari è forse chiedere troppo. Agli immigrati non dovrebbe essere chiesto di sostenere le specifiche tradizioni nazionali della società che li ospita, né di assimilare una identità nazionale definita da una storia che non è la loro. Ci si dovrebbe, piuttosto, aspettare che sottoscrivano i valori politici alla base delle costituzioni democratiche. Sebbene i valori fondamentali come l’eguaglianza, la libertà e la vita siano controversi nelle loro interpretazioni e applicazioni, vi è comunque un complesso di principi consolidato riguardo ai diritti umani, allo Stato di diritto e alla democrazia che afferisce a un nucleo di valori che gli immigrati sono tenuti a rispettare se intendono essere parte della comunità politica di destinazione. A questo proposito, non c’è relativismo culturale che tenga.

Edoardo Greblo, Luca Taddio

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