Mercoledì 18 dicembre (in Italia era già notte) la Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti d’America ha messo sotto accusa il presidente Donald Trump per abuso di potere e ostruzione al Congresso. Per Trump si tratta di una “indelible stain”, una macchia indelebile che lo segnerà per sempre. Come spiegano infatti Nicholas Fandos e Michael D. Shear del New Yotk Times, «indipendentemente dal risultato, i voti per l’impeachment alla Camera lasciano una macchia indelebile sulla presidenza Trump che non può essere cancellata dall’opinione pubblica con una raffica di tweet o con una arrabbiatura di fronte a migliaia di suoi fan durante una manifestazione elettorale». Infatti, anche nel caso di assoluzione – che è data praticamente per scontata vista la composizione a maggioranza repubblicana del Senato che dovrà giudicarlo – il suo nome sui libri di storia sarà associato agli altri presidenti che hanno subito l’impeachment: Andrew Johnson, accusato di abuso nell’esercizio dei poteri presidenziali nel 1868, e Bill Clinton, accusato di falsa testimonianza e ostruzione della giustizia nel 1998 ai tempi del Sexgate con Monica Lewinsky. In entrambi i casi, i due protagonisti furono assolti.

Proprio nella votazione finale del Senato degli Stati Uniti il presidente Clinton ebbe una clamorosa rivincita sui suoi oppositori. I due capi di imputazione furono respinti: non soltanto non arrivarono ai due terzi dei voti richiesti dalla Costituzione per destituire un presidente, ma non ottennero nemmeno la maggioranza assoluta. Il risultato fu clamoroso: bisogna ricordare infatti che i democratici – cioè il partito di Clinton – potevano contare soltanto su 45 voti, mentre i repubblicani ne avevano 55. Nella prima votazione per l’imputazione di falsa testimonianza, però, ben dieci senatori repubblicani si unirono ai 45 democratici per assolvere nettamente Clinton. E così il voto fini a parti rovesciate: 55 a 45. Sul secondo capo d’accusa (intralcio della giustizia) i transfughi repubblicani diminuirono, ma gli oppositori non ottennero comunque la maggioranza assoluta: il Senato si spaccò esattamente a metà con 50 voti a favore e 50 contro. Ma ne sarebbero serviti 67 per destituire il presidente. Fu la prova provata che il tentativo di disarcionare per via giudiziaria un presidente come Clinton, forte di popolarità e consenso molto ampi, non è esattamente una buona strategia.

Molto diverso fu, nel 1974, il caso di Richard Nixon. Consapevole che pure i suoi deputati repubblicani gli si sarebbero rivoltati contro per la gravità dello scandalo Watergate, Nixon preferì dimettersi senza attendere la messa in stato di accusa alla Camera. In quell’anno poi, al Senato, i rapporti di forza erano esattamente rovesciati: i democratici potevano contare su 56 senatori, i repubblicani su 42, più due indipendenti. Ma era certo che anche il partito del presidente gli avrebbe voltato in quel caso le spalle.

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