Il presidente più odiato
Impeachment, il boom dell’economia salverà Trump
Come sta l’America, intesa come Stati Uniti? Dipende dai gusti: se odiate Trump, se vi rivolta lo stomaco solo guardare la sua zazzera gialla, se siete lettori fedeli del New York Times e guardate la Cnn, allora la risposta non può che essere: povera America! Come ti sei ridotta con quel presidente clownersco e bugiardo, imbarazzante e ingombrante. Se il pesce si giudica dalla testa, l’America è un Paese marcio, anche se per fortuna le elezioni si avvicinano e a novembre del 2020 il popolo americano caccerà il politico più detestato e potrà rinascere. Se invece non avete particolari pregiudizi, se avrete notato che Trump brandisce l’ascia di guerra e delle minacce tonanti trasformandoli in foulard colorati come i bravi prestigiatori, allora può darsi che il vostro feeling sia diverso. Senza pregiudizi troppo pesanti, possiamo mettere in fila le seguenti note.
La prima. Il Partito Democratico americano, capeggiato dalla Speaker del Congresso (molto di più del nostro presidente della Camera) Nancy Pelosi, ha appena messo nero su bianco l’atto con cui l’opposizione mette il Presidente degli Stati uniti sotto processo davanti al Parlamento. Il motivo è noto: Trump avrebbe ricattato il presidente ucraino dicendogli che non gli avrebbe consegnato una le armi già concordate, se non gli avesse fornito prove sulle ipotetiche malefatte in Ucraina dell’ex vicepresidente Biden, uno dei suoi competitor per la Casa Bianca. Trump avrebbe chiesto materiale su Biden padre e figlio. Sarà vero, non sarà vero? probabilmente è vero. Inoltre, il Presidente è accusato di averne fatte di tutti i colori mentendo, intimidendo testimoni e alterando pubblicamente i confini e i termini della vicenda, sicché l’accusa ha messo su un dossier di cinquecento pagine che saranno discusse. Che cosa succederà? Salvo colpi di scena non succederà nulla perché il ramo del Parlamento che funzionerà da tribunale per il Presidente è il Senato in cui Trump ha una solida maggioranza repubblicana. Due gli scenari possibili. Il primo, che i repubblicani del Senato, senza voler condannare il Presidente decidano di arrostirlo a fuoco lento durante l’anno delle elezioni ingombrando la campagna elettorale con le tossine dell’inchiesta; oppure, dopo una sommaria discussione, voteranno e assolveranno il Presidente evitandogli di correre fino a novembre come un’anatra zoppa.
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Questo naturalmente lo sanno tutti, a cominciare da Nancy Pelosi: dunque, la grande manovra dell’“impeachment” è una magnifica parata di pura scena, un’occasione per animare le ribalte televisive, ma un colpo a salve, benché rumoroso. Il secondo scenario è quello in cui l’ala repubblicana che detesta Trump rallenti il processo senza che nessuno possa avere da ridire: chi potrebbe biasimare dei bravi senatori che prima di assolvere il Presidente vogliono rassicurare il popolo americano di aver svolto con scrupolo il loro dovere? Ieri, tutta la stampa non apertamente ostile a Trump ha considerato debolissimo il documento presentato da capo della Commissione Giustizia del Congresso, Jerry Nadier, e nel complesso il risultato immediato della messa in stato d’accusa – la terza nella storia americana, escludendo quella di Richard Nixon che si dimise prima, e includendo Bill Clinton che mentì alla nazione dichiarando di non aver mai fatto sesso con Monica Lewinsky – alla fine sarà zero.
Trump nel frattempo si affretta a cantare vittoria, si produce in uno show continuo sulle pretese bugie degli avversari i quali a loro volta lo accusano di mentire. Il cittadino americano assiste su giornali e televisioni allo spettacolo di una vera partita a chi la spara più grosse. Ma mancano ancora due elementi per completare lo scenario. Il primo, è l’incredibile vitalità dell’economia americana che da quando Trump è insediato nella bianca casa di Pennsylvania Avenue, germoglia e fiorisce senza sosta. Il secondo riguarda il nuovo trattato commerciale fra Stati Uniti, Canada e Messico che seppellisce l’esangue predecessore, il Nafta, e che col nome di USMCA (Us, Messico, Canada) promette al mondo degli affari nuovi paradisi di ricchezza: su questo punto – “Piatto ricco, mi ci ficco” – Repubblicani e democratici hanno trovato il deal, ovvero la quadra. Quando hanno chiesto a Nancy Pelosi che cosa pensasse del trattato che favorisce il business americano offrendo più mercato ai prodotti canadesi e messicani, la leader democratica ha risposto: «Quando si tratta di fare gli interessi del lavoratore americano, noi democratici siamo sempre in prima fila». Verissimo, ma è innegabile che questo USMCA sia un figlio genetico della politica di Trump nel puro stile di “America First”, dal momento che ha imposto la percentuale del 75 per cento di prodotti “Made in Usa” sul mercato nordamericano e che tutti i lavoratori nei tre Paesi abbiano lo stesso contratto al massimo sindacale degli Stati Uniti.
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È intanto accaduto un evento importante: malgrado una flessione di Wall Street all’inizio dell’estate che aveva fatto gridare mezzo mondo alla fine dell’età dell’oro, non soltanto il mercato si è ripreso, ma sono in costante crescita i nuovi posti di lavoro: più 166 mila nel solo mese di novembre, che fanno scendere la disoccupazione americana al 3,5 per cento, un tasso che paradossalmente allarma gli economisti perché inflazione troppo bassa e occupazione troppo alta possono diventare segni di una febbre deflattiva. Questa situazione eccezionale può essere interpretata in due modi: il primo, è quello di darne il merito di Trump. Il secondo, nel considerare che il trend ha le sue radici autonome, senza alcun merito della Casa Bianca. Sta di fatto che il boom dell’economia americana ha fatto il suo grande balzo dopo il drastico taglio delle tasse alle imprese, le quali hanno ringraziato espandendosi e assumendo. Piccola nota a margine sulla questione dei tagli alle tasse di cui si discute in Italia: il taglio delle tasse produce ricchezza (anziché consumarla) se premia chi rischia, non se premia la forza lavoro dipendente, che rimpingua il portafoglio con l’aumento dei salari e dell’occupazione. Lo sanno bene gli americani di pelle nera, l’elettorato afroamericano che finora aveva costituito il serbatoio elettorale democratico e che mai era stato tanto infelice – per reddito e condizioni di sicurezza – come sotto i due mandati di Barak Obama.
I nuovi attivisti repubblicani neri, come la famosa enfant prodige Candace Owens che punta alla Casa Bianca nel 2024, sostengono Trump e accusano i democratici di averli condannati alla ghettizzazione suburbana, con le appendici di aborti di massa e altissimi tassi di criminalità, soltanto per poterli avere come un unico grande elettore Zio Tom, da ripagare con elemosine a pioggia e fiumi di retorica. Trump non si è mai dato alla retorica pro-afro e anzi è un fatto noto che quando lavorava per l’impresa edilizia del padre scoraggiava gli acquirenti di colore perché avrebbero deprezzato le aree edificabili, come inevitabilmente accade quando il colore della pelle o l’accento latino coincidono con il complesso “Law and Order” che resta il cardine della civiltà dell’americano medio. Oggi molto più di ieri l’americano di pelle scura si sente parte della middle classe e anche dell’upper middle class e vuole le migliori scuole e università per i suoi figli, puntando sull’annullamento delle differenze e non sulla loro drammatizzazione. Naturalmente, rubando l’espressione alla commedia di Eduardo, Trump “deve passare la nottata”: sopravvivere al primo scontro sull’impeachment, non irritare il suo esercito repubblicano al Senato che spesso dà segni di malumore, promettere un roseo futuro sperando di superare inverno e primavera in vista delle elezioni di novembre. Molte le variabili, infiniti gli imprevisti, ma se l’economia seguita a macinare ricchezza, sarà difficile impedire un secondo mandato per il più detestato presidente degli Stati Uniti d’America.
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