Era accusato, insieme con altri ex dipendenti, di gestire due sale bingo nel Casertano in società con esponenti del clan Russo, una costola dei Casalesi. A distanza di sette anni dall’apertura dell’inchiesta, Luciano Cantone è stato assolto con formula piena dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Un motivo di gioia per l’imprenditore che, con questa sentenza, vede riabilitata anche la memoria del fratello Mario.

Già, perché Mario Cantone, anch’egli coinvolto nell’indagine che nel 2013 portò all’arresto di decine di persone e al sequestro di beni per 450 milioni di euro in tutta Italia, finì ben presto in carcere e nel 2014 si suicidò impiccandosi alle sbarre della cella. All’epoca 46enne, Mario Cantone fu l’unico ad andare in prigione; chiese gli arresti domiciliari per due volte e per due volte gli furono negati, sebbene versasse in condizioni psicologiche alquanto precarie; in una circostanza il Riesame impiegò circa tre mesi per depositare le motivazioni del provvedimento. Ora, a distanza di circa sette anni dalla sua morte, Mario Cantone viene di fatto assolto insieme con il fratello e i loro ex dipendenti.

La vicenda colpisce non solo per il dramma umano che porta con sé, ma soprattutto per l’immagine della giustizia campana e italiana che restituisce. Lascia basiti la lentezza con cui i magistrati hanno accertato l’insussistenza di qualsiasi legame tra i Cantone e la camorra. Sette anni sono tanti, troppi, e confermano una giustizia pachidermica, farraginosa, capace di costringere indagati e imputati ad autentiche odissee nelle aule di tribunale. La giustizia che ha assolto Cantone a sette anni dall’apertura dell’inchiesta sulle sale bingo è la stessa che poche settimane fa ha sbattuto in carcere un 47enne napoletano condannato per reati commessi nell’ormai lontano 1999; è la stessa che ha impiegato 18 anni per fissare la prima udienza istruttoria nel processo davanti a un giudice di pace; è la stessa che ha richiesto quasi vent’anni per chiarire definitivamente la correttezza dell’operato dell’ex sindaco e governatore Antonio Bassolino. A prescindere dal fatto che la sentenza finale sia di assoluzione o di condanna, una giustizia tanto lenta travolge necessariamente vite e carriere, famiglie e aziende, imponendo a indagati e imputati una compressione delle libertà personali, un surplus di tensione emotiva e spese legali e, spesso, una gogna mediatica francamente inaccettabili.

Oltre che lenta, però, la giustizia si dimostra tutt’altro che infallibile: nel 2019, nel solo distretto di Napoli, sono stati registrati 129 errori giudiziari che hanno portato alla liquidazione di indennizzi per l’ingiusta detenzione pari a tre milioni e 200mila euro. In tutta Italia, però, le azioni disciplinari avviate nei confronti dei magistrati non sono state più di 24 e quasi in nessun caso hanno portato a qualche forma di sanzione. Segno che, a più di trent’anni dal caso Tortora, troppe toghe continuano a sbagliare e a non pagare per gli errori commessi. Tutto ciò s’inserisce in un contesto generale in cui la credibilità dei giudici è ridotta ai minimi storici dal sistema di spartizione degli incarichi tra le diverse correnti e dai rapporti poco trasparenti tra queste ultime e ampi settori della politica. Ecco perché servono riforme serie: per restituire efficienza alla giustizia e credibilità alla magistratura.

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Classe 1987, giornalista professionista, ha cominciato a collaborare con diverse testate giornalistiche quando ancora era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'università Federico II di Napoli dove si è successivamente laureato. Per undici anni corrispondente del Mattino dalla penisola sorrentina, ha lavorato anche come addetto stampa e social media manager prima di cominciare, nel 2019, la sua esperienza al Riformista.