Affrontiamo questa settimana un tema che – ne siamo consapevoli – non è di facile divulgazione. PQM è nato proprio per realizzare una idea non semplice, ma inedita nel panorama editoriale nazionale: parlare di giustizia penale coniugando il rigore scientifico delle informazioni con lo sforzo divulgativo, cioè con l’ambizione di farsi comprendere anche dai non addetti ai lavori. Il tema che affrontiamo oggi è di vivissima attualità e rilevanza sociale, e riguarda un peculiare accanimento della nostra giurisprudenza nei confronti delle attività di impresa.

Nessuno ovviamente invoca – ci mancherebbe altro – aree di impunità per le condotte illecite poste in essere nell’esercizio delle attività di impresa. Tuttavia la peculiarità tutta italiana sta nel sempre più diffuso accostamento, ai reati commessi nell’esercizio dell’attività di impresa, del micidiale reato di associazione per delinquere, che ovviamente precipita l’impresa in un quadro di gravità criminale troppo spesso del tutto arbitrario, con conseguenze però devastanti.
Se il lettore vorrà capire subito le problematiche alle quali abbiamo voluto dedicare questo numero, suggerisco di partire dalla nostra Quarta Pagina. Il caso giudiziario che lì raccontiamo è esemplare: si contestano ad una impresa italiana reati di violazione delle leggi sui dazi doganali, e connessi reati di falso ideologico e corruzione. Ma ecco il valore aggiunto criminale che ormai quasi abitualmente si addebita alle aziende: il reato di associazione per delinquere.

La contestazione di questo reato è esiziale per l’impresa indagata, perché apre la strada (come spieghiamo in questo numero) a strumenti preventivi e punitivi ben superiori a quelli che sarebbero consentiti per la semplice contestazione dei reati – chiamiamoli così – ordinari in contestazione. Perché avviene questo abuso nell’esercizio dell’azione penale? Perché si utilizza la struttura organizzata dell’impresa (un amministratore al vertice, la attenta strutturazione di funzioni apicali e funzioni esecutive, quindi la distribuzione dei compiti e la attenta ripartizione degli stessi) per sostenere la esistenza di una associazione criminale idonea a contestare il famoso art. 416 del codice penale. Per contestare il quale, peraltro, la giurisprudenza richiede molto meno che una struttura così sofisticata e strutturata come quella aziendale.

Ma il punto è che quella struttura organizzativa aziendale preesiste alla commissione dei reati, ed è connaturata all’attività di impresa, con la conseguenza devastante che se una Procura e poi i giudici non operano questa decisiva distinzione, ogni impresa che commette reati sarà una associazione per delinquere. E poiché contestare quel reato ormai consente alle Procure di accedere ad uno strumentario investigativo formidabile, che spesso i singoli reati societari non consentirebbero di utilizzare, l’abuso di quella contestazione sta diventando abituale; poi i giudici, negli anni, faranno giustizia, ma intanto il danno è fatto.
Ecco di cosa parliamo in questo numero: di una realtà quotidiana con la quale il mondo delle imprese è chiamata a misurarsi: vi pare poco? Forse allora vale la pena premiare il nostro sforzo nel far comprendere un tema difficile, ma che rappresenta una deriva purtroppo ormai abituale nella ordinaria quotidianità della giustizia penale in Italia. Buona lettura.

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Avvocato