Leggere il bel libro di Elio Vito, “Quel che so di loro – Trent’anni di un radicale in Forza Italia” (prefazione di Marco Gervasoni, Rubbettino), vuol dire ripercorrere gli anni della Seconda Repubblica e i suoi passaggi difficilmente interpretabili ancora oggi. Vito è stato un protagonista molto importante della Seconda Repubblica, addirittura centrale nella dinamica parlamentare: aggressivo perché convintissimo delle proprie ragioni, come tutti i radicali, al suo meglio dietro le quinte, pur nel momento in cui veniva avanti fortissimamente il ruolo della tv, Vito era un maestro della navigazione parlamentare. I post-comunisti, che tradizionalmente “si tramandavano” i trucchi della macchina legislativa, lo avevano in antipatia per questo, perché gli teneva testa specie negli anni dell’Ulivo. Spesso si dimostrò più bravo di loro.
Questo libro pertanto è un piccolo film sull’inizio e lo sviluppo contraddittorio e infine mesto della Seconda Repubblica raccontato dal di dentro, il racconto dell’ascesa e della caduta di una storia che si è conclusa di pari passo con la vicenda del suo inventore, Silvio Berlusconi. Il tutto è impreziosito da analisi serie e da qualche retroscena raccontato da questo ex giovane radicale napoletano entrato presto nelle grazie di Marco Pannella, che alla fine degli Ottanta era molto attivo a Napoli. Vito seguirà sempre “Marco” – i radicali attraversano di tutto pur restando radicali – ed è mediante Pannella che sbarca alla corte di Berlusconi: due uomini diversamente geniali che si annuseranno per decenni senza che nessuno abbia “ceduto” all’altro, com’è tipico dei numeri uno. In fondo, c’è stato del berlusconismo in Pannella e del pannellismo in Berlusconi: e Vito si è trovato in mezzo a questi due grandi protagonisti della storia repubblicana, ritenendo che il Cavaliere avesse in testa il progetto di liberalizzare l’Italia, che era poi, seppure con modalità tutte sue, l’idea fondamentale di “Marco”. Ora, sia Berlusconi che Pannella furono due uomini pieni di contraddizioni: il primo ne faceva la leva per disegni grandiosi, il secondo le coltivava, per così dire, nello spirito minoritario tipico dei radicali.
Al servizio del Cavaliere come del leader radicale, Elio Vito mise una particolare capacità diremmo ingegneristica nell’allestire tattiche politiche e istituzionali: difficile trovare paragoni con altri esponenti politici con tali caratteristiche. Per questo ha avuto ruoli molto importanti: per anni capogruppo di Forza Italia e poi anche ministro per i Rapporti col Parlamento nell’ultimo governo Berlusconi. La sua rottura con Forza Italia dopo tre decenni avviene – lo spiega bene nel libro – quando il partito del Cavaliere si sposta a destra. Sono anni a noi vicini; la pandemia, certe compromissioni con la destra estrema, il filo-putinismo di Silvio Berlusconi dopo l’invasione dell’Ucraina: «Nella mia ultima legislatura, quella iniziata nel 2018, mi sono trovato, da solo, in Forza Italia, a sostenere le ragioni dell’antifascismo, mentre Forza Italia si alleava con neofascisti. Questa è la ragione di politica “interna” per la quale mi sono dimesso da Forza Italia e dal Parlamento».
Eppure – è inevitabile osservarlo – Vito era stato uno dei massimi esponenti della “prima” Forza Italia, quella che aveva sdoganato l’Msi e lavorato con fior di reazionari, da Cesare Previti e la sua cerchia fino appunto ai missini: era evidentemente per lui il prezzo da pagare per costruire una Seconda Repubblica “liberale”. Quella vicenda si è conclusa in favore di non si sa bene che cosa. Certo, il presente non gli garba affatto. E tuttavia Elio Vito, da posizioni progressiste, ha fiducia nel futuro. Ottimista, da vero radicale.