Filologo, storico, saggista, “coscienza critica” della sinistra, a proposito del dibattito nel Partito democratico dopo il voto del 25 settembre Luciano Canfora annota: “Ci sono due partiti dentro il Pd. Due partiti che la pensano in maniera molto diversa per non dire diametralmente opposta. E il partito in queste condizioni si autoparalizza. O provvedono a un chiarimento foss’anche doloroso al proprio interno, oppure continueranno a vegetare”.

In molti hanno definito “storiche” le elezioni del 25 settembre. Da storico, condivide questa aggettivazione?
L’aggettivo è usato spesso in modo eccessivo, però indubbiamente ci sono delle tornate elettorali che significano qualcosa. Avendo qualche anno sulle spalle mi ricordo il 7 giugno del 1953, allorché fallì la famosa legge truffa. Certo, continuarono i governi più o meno centristi, ma il Paese fu salvato da una deriva eccessivamente autoritaria, cioè il premio di maggioranza alla coalizione capeggiata dai democristiani. Dire che quello fu un passo storico, dipende dall’unità di misura che si assume. Nel caso specifico nostro, direi che è la prima volta che una coalizione abbastanza coesa di centrodestra arriva al potere. In passato era accaduto un paio di volte con Berlusconi, adesso, ed è questa la novità politica, una tale coalizione è capeggiata da Fratelli d’Italia, cioè da un partito che era piccolissimo ancora qualche anno fa e che ha alcune connotazioni e una sua genesi a tutti note. Un elemento di novità c’è sicuramente, poi che sia una novità storica dipende da come usiamo questo aggettivo. Che poi determini un orientamento politico del Paese questo lo credo poco.

Perché?
L’unico cambiamento vero e ingombrante sarà nella gestione dei migranti. Salvini viene trattato un po’ male, ma ho letto che Tajani ha benevolmente detto che può fare il ministro dell’Interno. Gli viene concesso. Ministro dell’Interno Salvini lo abbiamo già visto all’opera nel 2018-2019. E non è stato certo un bel vedere. Le navi tenute fuori dai porti e via elencando. In questo senso la presumibile presidentessa del Consiglio è più radicale di lui perché voleva il blocco navale nelle acque libiche. Su quel terreno c’è da aspettarsi novità molto poco gradevoli, per non dire senz’altro sgradevoli. Ma sul piano delle scelte economiche, l’Unione Europea ha dato tanti parametri, tanti cancelli da non valicare, tanti condizionamenti per cui esce Draghi entra Meloni ma grosso modo faranno la stessa cosa. Magari quest’ultima borbotterà un po’ di più per tenere contenti i suoi elettori, ma sostanzialmente dovrà fare quello che è già previsto da tutte le direttive emesse, dai cancelli prefabbricati che l’Unione Europea ha messo in atto soprattutto con i Paesi deboli come il nostro, debole perché indebitato fino al collo. Il cambiamento vero e proprio su quel terreno non ci sarà. E non ci sarà, temo, anche nella politica estera, nella situazione gravissima in cui ci troviamo, con una guerra sempre più minacciosa che rischia ancor più di allargarsi.

Su che basi fonda questa previsione, professor Canfora?
Sulla constatazione che Meloni e Letta hanno detto sempre le stesse cose. Va ricordato in proposito che il governo Draghi fece propria la mozione di Fratelli d’Italia sulla questione delle armi. C’è una perfetta identità di vedute, tanto che alcuni commentatori politici che scrivono sul Corriere della Sera auspicarono nei mesi scorsi, a giugno, una sorta di alleanza Pd-Fratelli d’Italia sul terreno fondamentale della politica estera. C’è una variante, però…

Quale?
Che i due partiti più piccoli della coalizione, Lega e Forza Italia, più o meno di pari forza, non sono tanto scatenati per lustrare le scarpe a Biden e a Stoltenberg. Sono perplessi, cercano di eccepire. Tajani, me lo ricordo bene, poco dopo lo scoppio della guerra su Rai 2 diceva allarmatissimo: per carità non fate la no-fly zone perché allora scoppia la guerra generale. È gente molto prudente, sia la Lega che Forza Italia sul fatto che non possiamo diventare una portaerei americana pronta all’uso, mentre Meloni questo dice di pensare. Su quel terreno ci sarà qualche piccolo problema.

Passando al fronte opposto. Che idea si è fatto della sconfitta e del tiro al Pd che si è aperto?
Il fatto che Letta abbia sbagliato completamente l’impostazione della campagna elettorale direi che è un fatto di immediata evidenza. Ha avuto, più o meno, gli stessi voti che ebbe Renzi cinque anni fa. Come Renzi gettò la spugna dopo la sconfitta, anche Letta potrebbe fare la stessa cosa. Invece ha detto che rimane ancora al suo posto per il bene del partito. Accumulare errori, dire frasi così infelici, è evidente che susciti l’ironia, la critica e anche peggio degli organi di stampa. Perché stupirsi? È un bersaglio che si offre spontaneamente. Ha voluto rompere ogni rapporto di collaborazione, anche vaga, con 5Stelle, con Conte in particolare, anche se nel Lazio e in chissà quanti altri posti governano insieme. Letta ha usato un atteggiamento che definirei infantile: mi hai portato via la marmellata e con te non gioco più. Un politico non fa mai un errore di questo genere. Valuta ciò che più conviene, tralascia i risentimenti personali e cerca di costruire. Mentre lui cosa ha fatto? Ha imbarcato Fratoianni, una coalizione abbastanza modesta tutto sommato.

Il Pd è un partito riformabile?
Io non ne ho mai fatto parte. Per quel poco che so e che vedo attraverso dichiarazioni e interviste, che sono fin troppe in realtà, ci sono due partiti dentro il Pd. Due partiti che la pensano in maniera molto diversa per non dire diametralmente opposta. E il partito in queste condizioni si autoparalizza. O provvedono a un chiarimento foss’anche doloroso al proprio interno, oppure continueranno a vegetare.

Non le pare un po’ ingiusto accanirsi sull’attuale segretario? In fondo ciò che il Pd è finito per essere non è una responsabilità che va addebitata al ceto politico che si è succeduto da trent’anni a questa parte?
Anche qui, dipende dalla prospettiva in cui uno si pone. Uno potrebbe sostenere, come qualcuno ha detto, anche giornalisti di un certo livello, che è tutta colpa della scissione di Livorno. Su questo andare, si potrebbe affermare, perché no, che è tutta colpa di Catilina. Uno deve valutare gli atti di coloro che sono stati protagonisti nella vicenda che si è appena conclusa. Non c’è di che stupirsi. Poi per le colpe storiche, remote, remotissime, non si finisce mai di scavare all’indietro.

Nell’aprire i lavori della Direzione del Pd, Enrico Letta ha esortato a usare il linguaggio della verità. Come leggere queste parole?
Che vuole che le dica, fare l’esegesi del pensiero di Letta non è proprio il massimo. Dire la verità è sempre un ottimo proponimento, però lascia un po’ di ombra sul passato. Se Letta fa questa esortazione significa che in passato non si è praticata questa buona usanza.

Sempre nell’introdurre la Direzione, il segretario ha affermato: discutiamo di tutto ma il simbolo rimanga così com’è.
Quello più che un simbolo sembra la targa di Padova. È una sigla che crea questo equivoco un po’ scherzoso.

Si è parlato spesso di una crisi di rappresentanza. Il fatto che in queste elezioni si sia toccato il livello più basso nella storia repubblicana di partecipazione al voto non dovrebbe suonare come un campanello d’allarme per tutti?
Sì, per tutti quelli che ragionano, che sono una minoranza. Ci sono giornalisti, analisti, i cosiddetti addetti ai lavori, che esultano, dicendo che è bello così, perché così vanno a votare quelli che sono veramente motivati per farlo. C’è questa tendenza ipocrita a fingere che il problema non esista e magari a idolatrare, implicitamente o esplicitamente, il modello di quello che i retori chiamano la “grande democrazia americana”, dove va a votare meno della metà degli aventi diritto. Si gioisce perché si rassomiglia a quelli là. Per cui scuotere dal torpore mentale chi non si rende conto che una astensione così elevata è di fatto la prova che la democrazia, o per meglio dire il sistema su cui è impiantata, non funziona, scuotere queste persone non è facile, perché fanno capo a questo modello americano che li ha abbagliati.

Avatar photo

Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.