La Germania vive una crisi, che interpreta da par suo in modo radicale. Non si tratta solo di decrescita infelice. Non si tratta solo di un governo federale la cui credibilità è ai minimi: la ministra degli Esteri, Bärbock ad esempio, esternò che “la Germania è in guerra con la Russia” e non innescò alcuna emozione, come invece sarebbe successo nella seconda metà dell’800 e in tutto il ‘900, allorché il mondo avrebbe tremato. Il ministro dell’Economia (e vice-cancelliere) Habeck fu colto in fallo in un dibattito pubblico a balbettare incerto di fronte alla richiesta di spiegare cosa fosse un’insolvenza. La crisi è, se possibile, ancor più profonda: è crisi culturale. È infatti in gioco l’identità di sé, l’identità della nazione.

Nel 1949 Adorno osservò che scrivere una poesia dopo Auschwitz “è barbarico”. Negli anni ’50 e ‘60 la Scuola di Francoforte iniziò ad osservare che i soldati avevano sbagliato ad appiattirsi sul III Reich. Con gli anni ‘80 Habermas impose il patriottismo costituzionale, per cui la patria è nella costituzione, quindi nei suoi valori, pertanto nell’anti-nazismo. A farla breve, l’effetto è stato che il nie wieder (“mai più”) riferito alla guerra, al nazismo, all’olocausto si è tramutato in un dissolvente “mai più Germania”. L’odio di sé – concetto portato a emersione da un illustre tedesco, Ratzinger – si declina quotidianamente ed esprime il respiro della Repubblica federale.

Alcuni esempi fra i tantissimi: la cancelliera Merkel in un congresso del suo partito strappò di mano a un dirigente la bandiera tedesca (oro-rosso-nero) e rabbiosamente la fece sparire. Nel calcio (e pure nelle altre discipline sportive) la squadra nazionale non viene più definita così, ma pudicamente “die Mannschaft” (la squadra): il richiamo alla nazione appare sconveniente. Il ministro Habeck ha pubblicato un libro nel quale sintetizzava il suo pensiero verso l’inno nazionale con le parole “mi fa vomitare”. Gli fu contestata quella frase ed egli, a distanza di tempo, da ministro in carica, dichiarò sibillinamente: “a tornare indietro non mi sarei espresso così”: non fu mai chiarito se si è pentito della forma (le parole usate) o del contenuto delle stesse. La ministra della cultura Roth si è presa la briga di riportare statuette in Benin per cancellare l’obbrobrio di una spoliazione d’epoca coloniale che attribuiva alla Germania guglielmina. Sì, quella Germania aveva avuto colonie in Africa, ma non nel Benin, bensì altrove (Tanganica, Togo, Camerun). L’errore storico fu ritenuto irrilevante, importante era mortificarsi. In manifestazioni di piazza non di rado appare un cartello con le parole “Harris do it again” (Harris fallo di nuovo”): la chiara allusione è ai bombardamenti nel 1945 con i quali il generale della RAF, Harris aveva gratuitamente distrutto Dresda e altre città tedesche, con decine di migliaia di morti bruciati vivi.

Insomma la crisi d’identità è profonda: ancora negli anni ‘70 H. Kissinger poteva definirla “un gigante economico ed un nano politico”; ora, con la voluta conversione a fonti d’energia meteoropatica (vento e sole) la Germania non è neppure più un gigante economico. E la crisi è vissuta con quella sistematicità che solo i tedeschi sanno esprimere. E proprio l’identità sintetizza il nodo politico. Vi è una minoranza – riconducibile tendenzialmente al partito AfD – che fa dell’identità la sua ragion d’essere: era nato nel 2013 per chiedere l’uscita dall’euro ed è maturato a partito che nell’est (ossia nella ex-Germania democratica), primeggia e nell’ovest ha ampiamente superato i liberali e non di rado oltrepassa la Spd. Eppure è ostracizzato in tutti i modi dal Juste Milieu. A partire dal mancato riconoscimento dei diritti costituzionali minimi (in tema di tribuna e di presenza), quali invece in Italia presidenti della Camera dello spessore di Pertini, di Ingrao e di Iotti, avevano sempre garantito al Msi, inequivoco erede della Rsi. E lo fecero non per indulgenza, ma per tutelare la tavola di regole condivise. Tale attenzione espresse il desiderio di condividere anche con l’opposizione più lontana un patrimonio costituzionale.

Il sospetto di incostituzionalità verso quel partito aleggia da anni: i servizi segreti interni (Verfassungsschutz) diffondono la notizia che quel partito è “estremista di destra”, che alcuni esponenti di esso sono “oggetto di osservazione”. So far, so good. Si indaghi, quindi e a fondo. Ma esiste un momento, dopo il quale l’ordinamento attraverso organi indipendenti dal governo (magistratura) deve prendere posizione. Non è costituzionalmente compatibile esporre al pubblico ludibrio per anni e anni una forza politica, senza una presa di posizione netta e chiara. Negli anni ‘50 la Germania di Adenauer attivò un procedimento per lo scioglimento della KPD (partito comunista); negli anni ‘90 fu dichiarata incostituzionale la NPD (neo-nazista). La politica si assunse le sue responsabilità. Ma verso la AfD ha luogo una sistematica emarginazione (dai talk-show ai finanziamenti pubblici), senza che si attivi un procedimento presso la corte costituzionale federale e si porti a esito la conclamata incostituzionalità. Queste settimane alcuni parlamentari nel Bundestag hanno timidamente attivato una procedura per la dichiarazione di incostituzionalità, ma fra loro stessi vi è scarsa convinzione.

Sull’estremismo (se malattia infantile o senile) hanno riflettuto Lenin e Cohn-Bendit. Nella Germania del Juste Milieu invece l’estremismo sfocia nell’involontariamente comico. Due esempi: il 1° settembre in due elezioni (Turingia e Sassonia), la AfD oltrepassò la soglia del 30%; la sera stessa, sul canale di Stato ZDF, la direttrice del Politico Schausten rievocò, con voce funebre, l’ingresso in pari data (ossia il 1° settembre 1939) delle Panzer-Divisionen in Polonia. Nel medesimo frangente, Göring-Eckhardt, vice-presidente al Bundestag del partito liberale (FDP), partito sceso sotto al 2% in Turingia, chiese la sollecita dichiarazione di incostituzionalità per la AfD, che aveva appena conseguito il 33,5% dei voti nella stessa Turingia.

Non ci si deve stupire che le percentuali di votanti siano in calo. La politica deve tornare alla sua ragione di essere più profonda: applicare il principio di realtà, vedere le cose per quel che sono e confrontarsi. Democrazia prim’ancora che rito elettorale è cultura del dialogo. Che non ci si arrocchi nel demonizzare la AfD. Delle due l’una: la si dichiari incostituzionale (se vi sono le condizioni), oppure ci si interagisca e – se trova i numeri – la si lasci governare in qualche Land. Se così non sarà, si persevererà in uno sterile ostracismo. Si rincorre un’astratta purezza morale, che altro non cela, alla fin delle fini, che una vuota brama di potere. E a settembre prossimo si voterà per il Bundestag… (con prevedibile crescita ulteriore della AfD).

Romano Ferrari Zumbini

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