Punire prima. Punire subito. Punire, dunque, attraverso il processo penale. Profittando, cioè, degli atti di cui il processo si compone e dei suoi strumenti coercitivi pronti all’uso, per piegare gli uni e gli altri – sono diagnosi risalenti – a finalità di immediato controllo sociale. Più che «passione contemporanea», secondo una felice immagine sociologica, pulsione «eterna» del potere e sentimento collettivo giunto al parossismo. La tortura ne ha rappresentato storicamente l’emblema. Esempio massimo della sofferenza corporale inferta agli inquisiti prima della sentenza, «straziati da tormenti certissimi» quantunque ne fosse dubbia la reità; finché la battaglia illuminista non ha fondato i moderni sistemi penali sulla presunzione d’innocenza e così stabilito che la legittimazione a punire possa discendere soltanto dal rimprovero di colpevolezza formulabile al termine dell’accertamento processuale. La concezione atavica, tuttavia, è rimasta ben piantata nell’animo dei legislatori d’ogni epoca e, più ancora, essa pervade la pratica giudiziaria quotidiana, prendendo forme diverse e aggiornate, figlie però della stessa matrice. Ne distinguiamo almeno tre.

Che fine ha fatto la ragionevole durata

La prima e più banale: l’avvio e la prolungata pendenza del processo recano in sé pregiudizio alla reputazione, ai progetti di vita, alle relazioni affettive e sociali della persona imputata, tutte prerogative individuali mandate in cenere dall’accusa che qualche pubblico ministero sia disposto a coltivare o si accanisca a promuovere. Tutti sappiamo che, a questa primaria afflizione cui soggiace l’imputato, si aggiunge spesso la risonanza, quando non la spettacolarizzazione mediatica del processo, versione ammodernata e, per l’appunto, anticipata dello «splendore dei supplizi» che l’ancien régime riservava all’esecuzione del condannato. Sarebbe allora sbagliato scartare la soluzione dell’improcedibilità per superamento di determinati limiti temporali, la quale proviene dall’imperativo costituzionale che incarica la legge di assicurare, del giusto processo, la «ragionevole durata» (art. 111). Obbligazione di risultato, volta a salvaguardare l’imputato presunto innocente dalla menomazione alla propria sfera esistenziale causata dal corso protratto del processo penale in quanto tale. Del resto, l’imputato non rimane mai indenne dalle conseguenze del processo istaurato a suo carico, dato che il nostro sistema non conosce il verdetto finale incentrato sull’alternativa perentoria tra «colpevole» e «non colpevole», senza sfumature intermedie o zone grigie, ma gradua le decisioni di proscioglimento secondo una scala di favore decrescente, dove alcune delle formule liberatorie lasciano sussistere lo stigma sociale, propiziano la confisca di beni e patrimoni a prescindere dalla condanna, o fungono da base di sospetto per scatenare comunque l’armamentario delle misure di prevenzione. Non ci si capacita, insomma, che l’azione del pubblico ministero, organo superiore di giustizia, possa rinunciare ai segni tangibili del proprio passaggio.

I provvedimenti cautelari

La seconda manifestazione del processo come pena è costituita dal patimento supplementare inflitto all’imputato con i provvedimenti cautelari, custodia carceraria in testa. Dal 1992 siamo infatti tornati alla cattura obbligatoria, in virtù della quale la condizione normale dell’imputato, per una serie via via crescente di reati, è lo stato di cattività. Qui operano le presunzioni legali di pericolosità basate sul titolo dell’accusa, malgrado le (ancora timide) affermazioni della Corte costituzionale, secondo cui le misure cautelari non possono rispondere a finalità assimilabili a quelle della pena, mirare a scopi di rassicurazione sociale.

Dalla detenzione anticipata derivano, poi, altri congegni sanzionatori in corso di processo: l’isolamento dell’imputato per volontà dell’amministrazione, mediante il “carcere duro” a norma dell’all’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario; la relegazione del medesimo dietro lo schermo audiovisivo tramite il collegamento a distanza dal luogo di restrizione, menomando dignità e difesa della persona proprio là dove questa rischia le pene finali più alte. Sembra inutile che gli studiosi del diritto penale seguitino nella ricerca delle ragioni del punire, poiché, qualunque esse siano, finiscono per collassare dentro la realtà del processo, divenuto un enorme dispositivo di segregazione e neutralizzazione di determinati tipi d’autore, dei quali è il pubblico ministero, con la qualificazione degli addebiti, a scolpire il profilo.

Rieducare i non colpevoli

Infine, la terza e più recente tendenza, inaugurata con l’istituto della messa alla prova a processo sospeso e perfezionata, ora, grazie alle lusinghe della giustizia riparativa. L’esecuzione della pena, questa volta letteralmente, entra nel processo mutandone la natura. La finalità scoperta consiste qui nel rieducare l’imputato senza averne prima acclarato la colpevolezza: costui viene indotto alla scelta di un «trattamento» che soltanto una forte dose di ipocrisia esime dal definire col nome veritiero di pena. L’imputato accetta prematuramente il ruolo di autore del reato e prende su di sé la colpa dell’illecito, a lato del processo, mentre ancora incombe l’accertamento penale a suo carico. L’intimidazione esercitata dal processo a suo carico, insomma, serve a piegare l’individuo a salutari regole di condotta, in definitiva a redimersi. Il sistema è approdato, per tale via, ad una concezione religiosa, penitenziale del processo, volta a suscitare rimorso e pentimento. Il cerchio così si chiude, con il definitivo congedo dalle premesse laiche del processo e della pena che dobbiamo alla dimenticata lezione illuminista.

Daniele Negri

Autore

Professore ordinario di procedura penale