“Si accorge che noi tutti, proprio come Lei, abbiamo a che fare con qualcosa che è troppo grande per noi? Che tutti noi accantoniamo il pensiero del troppo grande e della nostra non-libertà nei confronti del troppo grande? Che tutti noi quindi siamo ugualmente figli di Eichmann? O perlomeno figli del mondo eichmanniano?”. In una sua missiva indirizzata al figlio di Adolf Eichmann, arido architetto della soluzione finale hitleriana, il filosofo ebreo Günther Anders si poneva, tra gli altri, il problema enorme della rappresentabilità e della percezione stessa dell’Olocausto. Un evento talmente squassante, tellurico, fornace infernale capace di plasmare l’ontologia del mondo, da divenire quasi non-rappresentabile.

La banalizzazione della parola in rapporto al tema “Olocausto”, il non riuscire a trasmetterne il senso di distruzione situato oltre la latitudine della possibilità di conoscere, è uno degli artifizi di un male che in mille rivoli e con altri volti si incunea nel ventre molle di un Occidente immemore. Ora che si cerca la destrutturazione di quell’evento quasi metafisico, ora che persino gli apologeti di Hamas tentano di dirottare le parole di Primo Levi e il senso di quella tragedia, diventa importante chiamare a raccolta anche le voci meno conosciute e, forse, meno lette. Ma non meno importanti, anzi.

Uno dei più abbacinanti memoriali della Shoah lo compose la giornalista anglo-ungherese Gitta Sereny, in un volume divenuto celebre e in Italia pubblicato da Adelphi: “In quelle tenebre”. Un titolo perfetto per delineare quel camminamento invisibile, oscuro, all’interno di un abisso che come nel “Cuore di tenebra” conradiano riesce ad essere sì pronunciato ma senza che davvero se ne possa, da fuori, cogliere la profondità, l’asprezza, la consistenza di genesi di un nuovo male che nessun inferno vuole contenere. Il libro raccoglie conversazioni e interviste con il comandante di Treblinka, Franz Stangl, con ex carcerieri e internati: una puntigliosa, umanissima, aspra ricostruzione di umanità frantumate, incomunicanti, perse nel non aver mai compreso la gravità, morale e fisica, sul versante dei carnefici, e nell’aver subito qualcosa di inesprimibile, condanna a un pudore e a un silenzio, come incubo di notte e di nebbia, sul lato delle vittime.

E come dimenticare la grazia soave e mistica di Etty Hillesum che fino all’ultimo, fino al giorno in cui venne inghiottita dal mostruoso Moloch concentrazionario, guardò in faccia la belva, il demone ctonio emerso dalle viscere di un ingranaggio della morte scientifico e ottuso? “E se dobbiamo andare all’inferno, che sia con la maggior grazia possibile!”, annotò la Hillesum nei suoi Diari, pagine dolci e al tempo stesse decise, cariche di una umanità capace di irradiare luce persino nel fondo del pozzo della storia. E proprio come la Hillesum che non arretrò davanti l’avanzare del male, lo stesso fece Iréne Némirovsky che nei suoi Diari rilevò, sconsolata, “mio Dio, cosa mi combina questo paese? Dal momento che mi respinge, osserviamolo freddamente, guardiamolo mentre perde l’onore e la vita”.

A salvarla, lei e la sua famiglia, non valse nemmeno la lettera scritta da un reparto della Wehrmacht che era stato acquartierato presso la loro abitazione in Francia, indirizzata alle SS e con la quale si chiedeva la liberazione dell’intera famiglia. Ma gli zelanti funzionari della macchina di morte dovevano aver smarrito assieme all’onore anche la conoscenza della loro stessa lingua, come amaramente constatò Ernst Jünger che da ufficiale di occupazione in Francia e in polemica contro i suoi stessi superiori era solito rivolgere il saluto militare a chiunque fosse stato costretto a indossare la stella gialla.

La stessa divisa dello scrittore tedesco, ma senza dentro alcuna traccia della stoffa di un uomo, spezzò in Galizia, all’epoca Polonia, oggi Ucraina, a migliaia di chilometri dalla Francia, l’esistenza di uno dei più grandi scrittori del Novecento, Bruno Schulz. Voce di una errante, paurosa purezza, di una eterna infanzia, cantata con stile straziante, come in quello che è il suo assoluto capolavoro, “Le botteghe color cannella” (Einaudi), Schulz venne ucciso con un colpo di rivoltella da un funzionario della Gestapo, nel novembre del 1942, per ripicca contro un altro funzionario della Gestapo che pochi giorni prima aveva assassinato un ebreo al suo servizio. Spesso le parole, altre volte le parole e le esistenze e le umane vicende, echeggiano nel vento, vibranti e commoventi, il senso della memoria.