Sogni, visioni e crude verità: un biopic felliniano
Inarritu e il suo ‘Bardo’ tra Messico, nuvole e pensieri di un migrante conquista Venezia
«Bisogna fare solo pochi sorsi di successo e poi sputarli altrimenti se ne bevi troppo finisce per avvelenarti». È questa una delle saggezze che guidano il secondo giorno della 79esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, quella del padre del premio Oscar Alejandro Gonzalez Iñárritu, condensato nel suo film dichiaratamente più autobiografico, Bardo – cronaca falsa di alcune verità, presentato in concorso. Anche questo film, come il titolo di apertura, è distribuito dal colosso Netflix ma a differenza di White Noise, nella sua pazzia narrativa e visionaria, mette d’accordo la critica e la riunisce dopo il dibattito della prima giornata.
Con l’attore Daniel Giménez Cacho a fargli da esilarante alter ego, Iñárritu si colloca in uno stato della mente più che del corpo, il Bardo del titolo, per rivedere gli eventi della sua vita e dargli un senso. Bardo narra il viaggio per ricevere un premio, dall’America al suo paese natale, di un giornalista e documentarista messicano che vive a Los Angeles. L’occasione diventa fonte di una crisi esistenziale profonda che porta il protagonista e lo spettatore con lui in una commedia nostalgica sull’identità, le relazioni familiari, il rapporto con i ricordi e il proprio passato. «Non è un viaggio geografico ma un tentativo di costruire un’identità, la mia identità, basandomi sui miei pensieri, le mie paure e tutto quello che ho vissuto», dichiara ad inizio incontro con la stampa italiana il regista di Revenant. «A 21 anni da quando ho lasciato il Messico per andare negli Usa – continua – è la chiusura di un cerchio e trovavo importante riflettere sulla mia vita ed è il motivo per cui il film non segue una struttura logica ma è basato sul mio vissuto».
Il settimo film del regista cinque volte premio Oscar, dopo Venezia, avrà una sua uscita nelle sale di mezzo mondo prima di approdare su Netflix il 16 dicembre, per dare giustizia al 65mm in cui è girato, e alla fotografia del candidato all’Oscar Darius Khondji. Iñárritu gioca con il contrapporsi e unirsi delle sue due identità, quella di messicano e di americano, quella di immigrato e di privilegiato e lo fa descrivendo bene il punto di partenza, la definizione di Bardo: «Equivale al concetto del Limbo nella tradizione del cattolicesimo ed è transizione nel buddismo. Coincide con la mia condizione di vita – spiega – perché io sono in un bardo, un territorio di nessuno, in Messico sono considerato americano e in America sono considerato messicano quindi questa dimensione crea in me uno stato di vulnerabilità, la stessa che vivono tutti gli apolidi».
Mai abbandonando i suoi tratti onirici e a tratti deliranti, con Bardo, Iñárritu riesce nella doppia impresa di criticare se stesso e la sua situazione da “immigrato di prima classe” e affondare il coltello sulle contraddizioni del paese che ha lasciato e di quello che lo ospita: «Tutti gli immigrati si suddividono in varie categorie, ci sono i profughi, gli esiliati politici, situazioni affrontate anche in miei film precedenti come Amores Perros. Ci sono persone che non hanno nessun tipo di opportunità nei loro paesi e sono quindi costrette ad abbandonarli, io invece ho scelto di andare via e quindi la posizione è estremamente diversa, io mi sento un privilegiato». Silverio, da giornalista e documentarista, vagabonda nel film tra immaginazione e realtà, impersona non solo Iñárritu ma anche tutti gli intellettuali che, come lui, possiedono una sorta di inquietudine, una smania di accettazione. «Vai in giro a cercare l’approvazione delle persone che ti disprezzano», gli fa notare la moglie.
Il messaggio destinato a tutti è molto chiaro: forse stiamo perdendo troppo tempo sulle cose inutili invece di vivere e goderci i momenti. Lo spiega molto bene Iñárritu nel trovarsi a riflettere sulla parola successo, il veleno da cui il padre lo aveva messo in guardia da bambino: «Il successo ha un sapore agrodolce – confessa – è indubbiamente un privilegio. Con il successo sopraggiungono anche una serie di obblighi in termini di opinioni che gli altri si formano su di te e aspettative di cui ti investono. Io per carità non mi lamento perché sono contento di averne ma ha il suo prezzo e significa sacrificare una parte della propria esistenza nel momento in cui si vuole creare un’opera valida. La vita privata passa in secondo piano rispetto alla professione. Subentrano i rimpianti».
Crisi di mezza età per il regista messicano che non nega di aver fatto questo film al quasi scoccare dei 60 anni, proprio per elaborare il tutto. Come Birdman era arrivato al compiere dei 50 anni, Silverio in Bardo rappresenta questa nuova fase di esistenza e di cinema. Non serve un cinefilo per notare, nell’esperienza sognante che è Bardo, la presenza di elementi Felliniani. Ma si sa, sogno al cinema equivale al regista di La Dolce Vita e annuisce Iñárritu: «Credo che non ci sia nessun regista al mondo che non sia stato “infettato” da Fellini come nessun musicista può prescindere da Mozart, Bach o Ravel. È uno dei santi protettori di chiunque faccia cinema come Jodorowsky, Buñuel, Andersson, che ci aiutano capire come può essere utilizzato il mezzo cinematografico in quanto simile ai sogni. Buñuel diceva che un film è un sogno diretto da un regista. Spero che con questo film Santo Fellini mi abbia protetto».
La seconda giornata di Venezia 79, ha anche una protagonista femminile, immensa, che buca lo schermo con il suo carisma e la sua prova d’attrice in una finta biografia sulla prima direttrice d’orchestra del mondo: Cate Blanchett in Tár. Diretta da Todd Field, l’attrice due volte Premio Oscar non fa rimpiangere le volte in cui ha interpretato persone realmente esistite e costruisce una persona e un personaggio controversi, simbolo di riscatto femminile e al tempo stesso antieroina subdola e ricattatoria. Todd Field ritrae Lydia Tár in tutto il suo splendore, la celebra “Maestro”, musicista temuta e osannata e la guarda anche cadere sotto le accuse di molestie sessuali e lavorative ai danni di colleghe musiciste, sull’onda del #Metoo. 158’ minuti in cui Cate Blanchett diventa con certezza una papabile Coppa Volpi. Se la Mostra di Venezia conserva il suo filo diretto con l’Academy of Motion Pictures, forse, questa volta, ci scappa il terzo Oscar.
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