Il sito di stoccaggio distrutto
Incendio Malagrotta, il disastro ambientale provocato dai pm

Malagrotta brucia e si alza su in cielo, alta e opprimente, una colonna di fumus persecutionis. Il sito di stoccaggio e primo trattamento dei rifiuti della Capitale non esiste più. Colpito e affondato dalle fiamme che in poche ore lo hanno divorato, il più grande – e indispensabile! – impianto della Capitale d’Italia è stato incenerito. In una notte di fuoco che divampa sulla scorta di una scintilla già scoccata da tempo. In effetti, era stato polverizzato già da prima: piano piano, senza troppo rumore. In una notte lunga quindici anni che il cronista fatica a ricostruire con la logica. Perché non si può che essere in imbarazzo nel raccontarvi la vicenda di come il partito delle Procure si è abbattuto su Manlio Cerroni e su Malagrotta, privandola di una gestione competente e affidandola a figure, diciamo così, meno note.
Anche qui, come in altri casi che il Riformista ha potuto seguire, è stata imposta una gestione commissariale manu militari, con valutazione dei requisiti che lasciamo ai fatti, e alla storia, giudicare. Sempre con la stessa dinamica: polverone giudiziario, gestione commissariale inefficiente, aziende distrutte. Qui, dicevamo, l’imbarazzo è notevole: perché il più noto imprenditore del ciclo dei rifiuti, 96 anni e ancora tanta energia nel corpo e nella testa, ha il casellario giudiziario di un monaco tibetano: alla voce Manlio Cerroni oggi c’è scritto, in campo bianco, NULLA. Non ha mai riportato, cioè, condanne penali passate in giudicato. E però, è finito nell’occhio del ciclone. “Ingiusto profitto”. Un calcolo oscuro per noi mortali, su presunti illeciti risparmi ascrivibili alla mancata esfiltrazione del percolato. Materia esoterica, più che sotterranea. Sta di fatto che lo indagano una prima volta nel 2008 e lo arrestano nel 2014. Nel 2018 gli sequestrano le aziende. Poi i conti correnti. Infine riceve quello che gli ateniesi chiamavano Ostracismo: l’allontanamento forzato, il Daspo, da Malagrotta. La maledizione, la fatwa.
Non si può avvicinare fisicamente agli impianti. Come se non frequentasse il male, ma fosse egli stesso il Male. Fandonie, come poi hanno provato gli atti. Tutte le accuse sono cadute – via via che la magistratura approfondiva. Con qualche colpo di coda, certo. Per i fuochi d’artificio bisogna aspettare, com’è consuetudine, l’estate. Il 27 luglio 2018, al termine di un dibattimento durato più di 4 anni e dopo ben 81 udienze, si capisce che l’accusa non sta in piedi. Temendo la débâcle per il suo impianto accusatorio, il Pm Galanti tira fuori dal cilindro accusatorio la trovata del sequestro impeditivo preventivo (ex art.321 C.P.P.) con l’avallo del Procuratore Aggiunto dott. Prestipino e con il supporto dell’ing. Boeri, suo consulente tecnico di fiducia. È nel suo incarico di perito che trae origine il filone che porterà questa storia al sequestro e Malagrotta in mani meno esperte. Era l’11 aprile 2018 quando Boeri si era limitato a stabilire che nella discarica di Malagrotta c’erano non meno di 3.666.390 mc di percolato il cui trattamento e smaltimento, al prezzo di mercato di 52 euro per tonnellata, avrebbe avuto un costo di 192 milioni di euro.
Poiché ciò nell’economia del processo non voleva dire nulla, il dott.Galanti chiede all’ing. Boeri una nuova perizia che trasformasse il costo di smaltimento del percolato della prima perizia in ingiusto profitto conseguito dalla E.Giovi, ovvero la società di Cerroni che gestiva l’impianto. L’ing. Boeri esegue. Forse avvertendo meglio la gravità di quello che gli è stato chiesto e che sta scrivendo – forse, è solo un’ipotesi – tant’è che sul frontespizio della seconda perizia del 18.10.2018 ritiene opportuno evidenziare “come da intese intercorse per le vie brevi”. Su questa base il dottor Galanti procede al maxi sequestro. Epocale. Assoluto. Generale. Il provvedimento arriva appena poco prima della sentenza di assoluzione (5 novembre 2018) nel processo n.7449/2008 e si abbatte su Malagrotta e sull’imprenditore che l’aveva costruita – a partire da un suo brevetto del 1964 – come un terremoto. Vengono sequestrati i conti correnti personali di Manlio Cerroni, degli ex amministratori e di tecnici.
Vengono sequestrate le quote sociali della E.Giovi, estromesso Cerroni dalla gestione della Società e si procede alla nomina di un Amministratore Giudiziario. Poco dopo la I Sezione del Tribunale di Roma, presieduta dal dott.Giuseppe Mezzofiore, assolve quel pozzo di ogni nequizia che sembrava essere diventato Cerroni. La motivazione gli rende giustizia: «Qui non siamo in presenza di una mobilitazione di forze per agevolare un determinato soggetto ma l’obiettivo da raggiungere è un qualcosa che trascende l’interesse personale ed individuale del singolo-privato, per investire in pieno la sfera dell’intera collettività». Poi però, arriva una interdittiva antimafia. Nonostante sia stato assolto da tutto. Nato dall’ordinanza di custodia cautelare nel 2014, associazione a delinquere e traffico illecito di rifiuti. ‘Reati spia’, si chiamano: il Prefetto attiva su due piedi l’interdittiva antimafia. Che paralizza le attività.
Il ricorso al Tar ha rimosso l’interdittiva per difetto di istruttoria, e per tre anni Cerroni e Malagrotta riprendono a lavorare. La Procura a quel punto impugna la decisione del Tar, ricorrendo al Consiglio di Stato. Nel 2017 l’interdittiva è ripristinata, con la motivazione che tutto il contenuto dell’ordinanza della custodia cautelare aveva retto al vaglio del Gip. Però il 5 novembre 2018 tutto si è risolto: il fatto non sussiste. A dispetto dell’ultima assoluzione, l’interdittiva è rimasta. Chiusi i conti correnti, allontanato Cerroni dagli impianti, la cabina di pilotaggio è rimasta saldamente nelle mani dei commissari. Come si vede. Il dubbio degli addetti ai lavori è che la manutenzione, la sicurezza, forse anche la necessaria vigilanza sia stata tenuta bassa. Ai limiti del minimo sindacale. E per alcuni al di sotto. Non è strano, ahinoi. Le gestioni commissariali bruciano spesso quello che toccano.
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