Con il senno di poi era inevitabile che la Procura di Milano, lo scorso novembre, non cogliesse l’inaspettato contributo info-investigativo da parte del Fatto Quotidiano nel processo Eni-Nigeria. Il dibattimento sulla maxi corruzione era alle battute finali. Fra gli addetti ai lavori era percezione diffusa che i giudici della Settima sezione penale si stessero formando un convincimento molto difforme rispetto alle valutazioni della Procura. All’udienza del 23 luglio 2019 un colpo di scena aveva gettato nel panico i pm.

Il difensore di uno degli imputati aveva fatto presente che in altro procedimento fra gli atti depositati dalla Procura vi fosse un verbale della guardia di finanza in cui si dava atto dell’esistenza di una videoregistrazione effettuata in maniera clandestina dall’avvocato Piero Amara. Oggetto della registrazione l’ incontro del 28 luglio 2014 tra lo stesso Amara, Vincenzo Armanna e alcuni faccendieri, negli uffici del manager Ezio Bigotti, uno dei protagonisti del “Sistema Siracusa”. Nella registrazione emergeva molto chiaramente l’intenzione di Armanna, un manager dell’Eni licenziato per falsi rimborsi spese, di vendicarsi nei confronti dei suoi ex capi. Armanna, due giorni più tardi, si presenterà in Procura a Milano per denunciare episodi corruttivi commessi da Eni e dai suoi vertici, diventando quindi il principale teste d’accusa.

L’aggiunto Fabio De Pasquale, il titolare del fascicolo, spiazzato da questa registrazione di cui pur essendo a conoscenza si era guardato bene dal produrre, il 15 febbraio del 2020 cercherà di far entrare nel processo un verbale in cui Amara aveva raccontato che gli avvocati degli imputati e di Eni avevano accesso presso il presidente del collegio Marco Tremolada. Una “bomba” che rischiava di far saltare tutto il processo. Qualche giorno prima, a fine gennaio, il procuratore di Milano Francesco Greco e l’aggiunto Laura Pedio, magistrato di sua estrema fiducia, avevano inviato alla Procura di Brescia, competente per i reati commessi dai giudici milanesi, tale verbale. Il fascicolo, per la cronaca, sarà archiviato essendo palesi le balle di Amara. Ma veniamo all’aiuto del Fatto ai pm.

Antonio Massari in un articolo del primo novembre 2020 raccontò di aver visionato una chat prodotta da Armanna e firmata dall’attuale numero due di Eni, Claudio Granata. Argomento della discussione era il licenziamento di Armanna e la sua futura possibilità di rientrare in Eni o ottenere incarichi presso altre società del gruppo. Granata invitava Armanna a “non fare mosse avventate”, sostenendo che “Eni può certamente distruggere chiunque in Italia”. “Sanno tutto di te, chi sono i tuoi amici, dove vivi, con chi parli, dove potresti cercare lavoro, chi potrebbe aiutarti, dove lavora tua moglie e dove vanno a scuola i tuoi figli”, avrebbe scritto Granata. E ancora: “Non potrei fare nulla per fermarli”. Granata preannunciava anche che Eni “comincerà a breve un’opera di distruzione della tua reputazione”. Alla pubblicazione dell’articolo seguì la risposta di Eni che ricordava come Descalzi e Granata avessero presentato querela per diffamazione a carico di Armanna in merito a sue affermazioni simili a quelle riportate nella falsa conversazione. Eni ricordava anche che «le dichiarazioni e le accuse avanzate da Armanna nel corso del procedimento Op1245 si siano dimostrate false e smentite da fatti e testimonianze processuali, e come siano emerse prove inconfutabili sulla sua intenzione di manipolare a livello giudiziario vicende legate al giacimento per colpire il management di Eni e trarne vantaggi economici personali». Praticamente con sei mesi di anticipo quello che scriveranno i giudici nella sentenza di assoluzione di tutti gli imputati.

La chat invece di finire nel cestino finisce però nel libro Magistropoli, scritto sempre da Massari. «Notiamo come per l’ennesima volta il vostro giornale non perda occasione per attaccare Eni e i suoi manager senza l’esistenza di alcuna notizia, costruendo ipotesi di reato e pubblicando presunti “scambi” privi di qualsiasi rilevanza rispetto alle circostanze oggetto dell’indagine, manipolati, ideologicamente e materialmente falsi e complessivamente e logicamente privi di ogni veridicità», la nuova replica di Eni. E ancora: «Claudio Descalzi e Claudio Granata non hanno mai avuto quelle conversazioni con Vincenzo Armanna, men che meno in una chat che chiunque potrebbe essere tecnicamente in grado di riprodurre artificialmente, dopo averne inventato i contenuti “ex post” a supporto delle proprie calunniose narrative tese ad alleggerire la posizione personale e a fornire presunti riscontri». «Teniamo a informare i vostri lettori che già il 31 ottobre 2020 ci eravamo offerti, sia con Massari che con il Direttore del Fq, di fornire tutte le spiegazioni tecniche a fondamento della nostra categorica smentita sui contenuti della falsa chat, ma che la nostra proposta è stata rifiutata senza spiegazione alcuna».

«Prendiamo atto che l’autore, e di conseguenza il giornale, preferiscono dare credito a una fonte, Vincenzo Armanna, che nell’ambito del procedimento Op1245 ha dimostrato la propria totale inattendibilità e del quale i fatti hanno provato le menzogne dichiarate per interessi personali». La controreplica è affidata a Massari: «La Procura di Milano mi ha convocato, dopo aver pubblicato a novembre il primo articolo, per acquisire in un fascicolo d’inchiesta il contenuto delle chat pubblicate dal nostro giornale e nel libro Magistropoli. Sia nell’articolo, sia nel libro, con la massima chiarezza abbiamo precisato – e lo ribadiamo in questa sede – di non aver preso alcuna posizione sulle chat in questione: non sappiamo se siano autentiche o false e soltanto la Procura di Milano – che in seguito al nostro articolo ha disposto una perizia tecnica sul telefono di Armanna per verificare se si tratti di messaggi autentici oppure manipolati – potrà fornire una risposta e fare chiarezza».

E arriviamo alla scorsa settimana. La sintesi dell’accaduto è affidata al Corriere della Sera. Per accorgersi che la chat era un tarocco «non c’è nemmeno stato bisogno di chissà quali ricerche informatiche sul telefono di Armanna, reali o meno che siano i profili di inutilizzabilità giuridica adesso evocati dai vertici della Procura (di Milano) per respingere l’accusa della Procura di Brescia d’aver taciuto prove a favore delle difese». Era stato sufficiente verificare se i numeri fossero davvero di Descalzi e Granata. Attività svolta dal pm milanese Paolo Storari, Il pm, infatti, si fece dare da Armanna il telefonino, mai sequestrato negli anni e «con una semplice interrogazione dall’anagrafe del gestore telefonico» appurò che Descalzi e Granata non avevano mai avuto tali utenze. Fine della storia. Anzi, no: Storari aveva avvisato tutti in Procura ma nessuno ritenne di informare il Tribunale di questa circostanza.