Il rispetto delle regole processuali, delle pronunce della Corte di Cassazione e delle guarentigie parlamentari, è molto spesso un optional dalle parti delle Procure. È di questi giorni la notizia dell’avvio dell’azione disciplinare da parte del Procuratore generale della Corte di Cassazione nei confronti dei magistrati di Torino Gianfranco Colace e Lucia Minutella che procedono verso l’ex senatore del Pd Stefano Esposito.
Il punto di partenza è un’indagine per il reato di associazione mafiosa contro ignoti, iniziata a Torino nel 2014 sulla base di intercettazioni. Ci sono due persone ascoltate alla vigilia di un bando di gara per i lavori di ristrutturazione del museo di Reggio Calabria. Dicono che “da giù”, cioè dalla Calabria, hanno ricevuto sollecitazioni per trovare al nord un’azienda che disponga delle prerogative necessarie per poter partecipare alla gara. Con strane triangolazioni e probabili casi di omonimia, gli investigatori arrivano a individuare l’imprenditore torinese Giulio Muttoni e la sua “Set Up Live” che vince la gara. Per i magistrati lui e i suoi soci si sarebbero messi a disposizione delle persone intercettate e legate alla criminalità organizzata.

Giulio Muttoni è amico strettissimo di Stefano Esposito, padrino di battesimo di una delle sue tre figlie. I carabinieri lo ascoltano per tre anni e controllano i suoi messaggi Whatsapp, benché dopo qualche settimana abbiano già capito che è un senatore. Lo sospettano di aver aiutato l’amico a superare un’interdittiva antimafia del prefetto di Milano in seguito all’aggiudicazione di un lotto di Expo 2015. 130 intercettazioni, delle 500 ottenute senza alcuna autorizzazione del Senato, sono usate come indizi di colpevolezza. Le intercettazioni complessive sono quasi 1300, una violazione di legge costante e reiterata nonostante diverse richieste avanzate nel tempo dai difensori di Esposito. Nessuno dei tre pm che si sono succeduti nelle diverse inchieste che si sono intrecciate, prima Paolo Toso e Antonio Smeriglio, poi Gianfranco Colace, ha mostrato di porsi il problema. Anzi, quest’ultimo ha valorizzato il contenuto delle captazioni senza porsi il dubbio della loro inutilizzabilità.

Esposito, vista l’inerzia della magistratura, si era allora rivolto al presidente del Senato Pietro Grasso che aveva quindi chiesto ed ottenuto il voto della giunta e dell’aula per la trasmissione degli atti al ministro di Giustizia, al Csm e al pg della Cassazione affinché avviasse l’azione disciplinare nei confronti delle toghe torinesi. Le quali, con molta disinvoltura, avevano continuato a indagare il senatore, violando anche la legge che consente la richiesta di autorizzazione a posteriori purché la captazione del parlamentare sia stata casuale.

Ed è di questi giorni anche la notizia che il Guardasigilli Carlo Nordio ha chiesto al Pg della Corte di Cassazione di procedere ad azione disciplinare nei confronti dei pm fiorentini Luca Turco e Antonino Nastasi. La vicenda riguarda il sequestro della documentazione rinvenuta nel pc e nel telefonino dell’imprenditore Marco Carrai a novembre del 2019. Dopo ben tre sentenze della Corte Cassazione, l’ultima a febbraio del 2022, il decreto di perquisizione e sequestro a Carrai veniva annullato senza rinvio essendo stata sancita la sua completa illegittimità. I pm, allora, nominavano un consulente tecnico al fine di procedere alla cancellazione delle copie forensi e di quella in possesso della guardia di finanza contenenti tali documentazione. Sennonché ciò non sarebbe avvenuto perché Turco aveva pensato bene di inviare comunque gli atti al Copasir, utilizzandoli inoltre per richiedere un nuovo sequestro sempre nell’ambito dell’inchiesta Open.
Turco aveva deciso di intraprendere questa nuova iniziativa per tentare di mantenere il sequestro del medesimo materiale. Il procuratore aggiunto richiedeva quindi al giudice il sequestro configurando Open non più “articolazione di partito”, come fatto finora, bensì “mero soggetto intermediario”, prendendo spunto proprio dalla sentenza della Cassazione del febbraio 2022 che aveva sostenuto di non poter avallare tale prospettazione poiché “non era stata neppure formulata dalla pubblica accusa il cui vaglio sarebbe quindi precluso in questa sede”.
In particolare, come scrisse il giudice, “non al fine di acquisire la prova delle condotte in contestazione ma di recuperare ai fini processuali quei dati che per i giudici di legittimità erano stati illegittimamente acquisiti”.
Un “testa coda” che potrebbe avere come conseguenza l’accusa per i pm di aver agito in “violazione di legge per negligenza inescusabile”.