Le Procure possono condizionare un diritto degli indagati
Indagini difensive, l’allarme degli avvocati: “Così i Pm le ostacolano”
L’Osservatorio investigazioni difensive dell’Unione Camere Penali Italiane (Ucpi), di cui sono responsabili gli avvocati Alfredo Marradino del foro di Napoli Nord e Roberto Aventi del foro di Busto Arsizio, sta lavorando a un questionario per elaborare una serie di dati e, attraverso questi, tracciare un preciso quadro della situazione attuale. Da una prima analisi delle risposte dei penalisti e delle loro adesioni alla compilazione del questionario emerge che il ricorso alle indagini difensive è ancora poco diffuso e che la norma ha ancora vuoti da colmare e possibili ingerenze da parte della magistratura. Per come è al momento strutturata la norma, infatti, è rimessa ai pm la discrezionalità su aspetti importanti nella sfera delle investigazioni difensive. Si pensi, per esempio, alla richiesta di atti e documenti a privati come banche o compagnie telefoniche: in questi casi, diversamente da quel che riguarda le richieste inoltrate alla Pubblica Amministrazione, la norma non prevede una procedura a cui i privati devono necessariamente attenersi e, di conseguenza, ognuno segue la propria procedura con la facoltà di rifiutare la richiesta di atti avanzata dal difensore.
Di fronte a un no, il difensore può rivolgersi al pm che però è l’altra parte processuale e, esprimendo una valutazione sulla richiesta del difensore prima di imporre ai privati di assecondarla, finisce per interferire in qualche modo sulla strategia di indagine difensiva. Ne condiziona, inoltre, anche i tempi incidendo su quella tempestività che in alcuni casi può rappresentare un fattore determinante al pari di altri. Il pm, in più, ha tra i suoi poteri anche quello di secretare le dichiarazioni che acquisisce da un testimone e può disporre che il testimone non ripeta quelle dichiarazioni al difensore che svolge investigazioni. In poche parole, il pm può farla da padrone. Stesso discorso per l’accesso al luogo dove si è verificato un reato: se la parte nega l’accesso, l’avvocato deve rivolgersi al pm il quale prima valuta la richiesta, poi decide se autorizzare o meno l’accesso. In seconda battuta ci si può rivolgere al giudice ma è chiaro che c’è una sfera di potere dei pm che ricade sulla materia delle indagini difensive.
È questo uno degli aspetti del pacchetto di norme che secondo i penalisti sarebbero da aggiornare e riformare per colmare i vuoti, superare le difficoltà strutturali e rendere l’arma delle investigazioni difensive un’arma più valida e meno spuntata di come è adesso. Alla base ci dev’essere comunque una spinta culturale, una volontà da parte di una certa avvocatura di abbandonare il retaggio del vecchio modo di fare il difensore e di replicare alle accuse solo nel processo controbattendo al materiale probatorio raccolto dal pm. La materia delle investigazioni difensive, spiegano i penalisti, si rifà a una visione del processo diversa, una sorta di americanizzazione del processo, un’idea di processo che è andata sfumando perché parallelamente sono mancate altre riforme, perché nel nostro sistema giudiziario la separazione delle carriere tra giudici e pm è tema di cui si dibatte ma su cui non si decide e il pm continua a far parte della stessa categoria dei giudici, mentre in America il pubblico ministero è un avvocato e la parità di strumenti tra accusa e difesa è più realizzabile.
La strada nel nostro sistema giudiziario, dunque, è ancora lunga. E i paletti da superare ancora tanti. A ciò si aggiunge il capitolo costi, questione che il Riformista ha affrontato raccogliendo le testimonianze di chi, per difendersi e dimostrare la propria innocenza, ha dovuto sostenere costi elevatissimi, arrivando a indebitarsi e vendere la casa. Un dramma che nessuno riuscirà mai a rimborsare.
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