Ci sono due modi di pensare al carcere, due modi per gestirlo e di conseguenza, per chi lo subisce, due modi di viverlo. Uno è rendere il carcere luogo di privazioni (fini a sé stesse), di diritti mortificati e talvolta negati. Un altro è renderlo luogo di rieducazione, di opportunità, di rinascita. Il primo continua ad essere il modo più diffuso, nonostante le statistiche e gli studi indichino periodicamente le cifre del fallimento: più sovraffollamento, più recidiva, più criminalità, più violenza, più possibilità di ammalarsi, più rischi legati alla promiscuità, più disumanità, più suicidi. A proposito dei morti di carcere ieri il tragico bilancio si è aggravato e si è arrivati a quota 45 suicidi in cella dall’inizio dell’anno: un detenuto napoletano di cinquant’anni, Sossio Cicchiello, originario di Frattamaggiore, si è ucciso impiccandosi con le lenzuola in una cella del carcere di Arienzo. Era arrivato nel piccolo carcere casertano il 9 luglio da Poggioreale.
Ennesimo dramma che spinge il garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello, a ribadire che “il carcere è luogo senza senso e a volte senza elementi relazionali per riprendersi la vita, subisce i rumori populisti delle persone e il populismo politico alla ricerca del consenso”. Insieme alla garante casertana Emanuela Belcuore. Ciambriello ha sottolineato le buone prassi trattamentali messe in atto nel carcere di Arienzo. Ma è evidente che non basta, bisogna promuovere più progetti per più detenuti.
E qui arriviamo all’analisi del secondo modo di concepire il carcere, che è quello meno diffuso, quasi una rarità nonostante sia il modo che finora, secondo quanto accertato da studi e statistiche, ha consentito un abbassamento del tasso di recidiva: prevede attività di rieducazione e di formazione per il detenuto, progetti nell’ottica di un futuro per chi, scontata la pena, esce poi dal carcere, attività finalizzate a una nuova responsabilizzazione del detenuto e indirettamente a vantaggio non solo del singolo ma dell’intera collettività. Due modi diversi, opposti, che rivelano come sia possibile dare un senso alla pena e come, invece, all’interno del sistema si agisca per lo più per farlo collassare. Come se un carcere migliore, davvero extrema ratio e comunque luogo di recupero, non lo si voglia avere. E chissà poi perché …
Si preferisce assistere invece allo stillicidio quasi quotidiano dei morti in carcere e di carcere, alla violenza, ai recidivi, alle condanne dell’Europa per l’inumanità delle condizioni di vita nelle celle delle carceri italiane. Si preferisce discutere di riforme e interventi che poi nei fatti non si attuano mai fino in fondo. Eppure un’altra realtà è possibile ed è sotto gli occhi di tutti. Basterebbe osservarla davvero. Prendiamo come esempio il carcere di Santa Maria Capua Vetere. Un anno fa balzava alle cronache come il carcere dei pestaggi, le indagini della Procura avevano messo insieme le chat e i video dei circuiti interni di sorveglianza per ricostruire il pestaggio del 6 aprile 2020, “orribile mattanza” scrisse il gip, un centinaio di agenti e funzionari accusati di torture e percosse ai danni di un centinaio di detenuti. Da circa vent’anni quello sammaritano è anche il carcere senza acqua potabile perché costruito senza l’allaccio alla rete idrica (i lavori sono stati avviati solo da alcuni mesi). Ma è proprio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere che è partito un progetto virtuoso, uno dei pochi per la verità e meno male che c’è. È un progetto che prevede l’impiego di alcuni detenuti in attività di sartoria. Un progetto che ha visti impegnati l’ufficio di Sorveglianza coordinato dal magistrato Marco Puglia, la direzione del penitenziario nella persona di Donatella Rotundo e la storica azienda tessile Isaia che ha garantito la necessaria formazione alle persone coinvolte.
Alcuni dei detenuti che partecipano a questo progetto stanno, inoltre, frequentando uno stage presso la sede dell’azienda di moda così da procurarsi competenze spendibili poi nel mondo del lavoro. “A me, intanto, piace pensare che tra le pieghe di questa camicia ci sia il senso vero della pena, fatto di rinascita e speranza cucite indissolubilmente tra loro”, è il commento che ha fatto il magistrato Puglia indossando una camicia realizzata dai detenuti. Una speranza che andrebbe condivisa. Un progetto che andrebbe sostenuto, replicato nel campo della moda come in altri settori, provando a investire di più su questi progetti e ad estenderli a numeri più ampi di detenuti.
Il carcere non può più essere una discarica sociale. La realtà ha dimostrato che un carcere così non garantisce sicurezza alle nostre città, anzi aumenta la violenza, non argina il crimine. Le nostre carceri sono tra le più sovraffollate d’Europa. Lo dicono tutte le statistiche. Che si fa? Dal recente rapporto di metà anno dell’associazione Antigone è emerso chiaramente che il sistema penitenziario è in fallimento. Dopo la riduzione dei numeri dei detenuti presenti nei vari istituti di pena dovuta alla pandemia, le presenze sono tornate a crescere.
Non è cresciuta però l’opportunità di lavoro, di studio, di svolgere attività all’interno delle mura dei penitenziari. “Né – sottolinea Antigone – la possibilità di sentirsi con i propri familiari più di quei dieci minuti alla settimana che se nel 1975, anno di emanazione dell’ordinamento penitenziario, potevano sembrare sufficienti, oggi non lo sono più”. “Il mondo è cambiato e il carcere non ha saputo stare al passo con questo cambiamento. Per questo – aggiunge Antigone – abbiamo bisogno di riforme, urgenti. Non servono più carceri, ma servono più misure alternative, servono più attività, serve più affettività”. Meno afflizioni, più attività per i detenuti. “Per il loro reinserimento sociale – conclude Antigone – per la sicurezza di tutte e tutti”.