Assistiamo in maniera crescente all’impiego dell’insulto nella comunicazione sociale e in quella politica, fino ad arrivare ad una preoccupante diffusività della minaccia verbale e fisica che sta caratterizzando in particolare il tema dei vaccini e delle limitazioni in epoca Covid-19. Evidente che l’emotività ha preso il sopravvento si dice, ma sarebbe davvero riduttivo fermarsi a questo tipo di analisi. L’emotività c’è sempre stata a caratterizzare le relazioni umane, il punto è che oggi essa ha una pretesa assoluta nella “dialettica delle verità”. Un termine che evoca una contraddizione in re ipsa: non ci può essere dialettica tra due cose incompatibili e ritenute entrambe vere, una deve soccombere per legittimare l’altra.

Il diritto costituzionale è nato per garantire il pluralismo nelle “società senza verità” (se non forse quelle tecniche) e si trova a dover fronteggiare crescenti spinte ad affermare verità ad horas. Non si media (nel senso che non si raggiungono compromessi) perché con la verità non hanno senso le mediazioni, ma si pretende che i media trasmettano la verità del momento altrimenti andrebbero addirittura puniti. Quando le emozioni prendono il dominio i compromessi della logica sono declassati a semplici e dolorose offese. L’“emotivamente vero” è spesso non solo privo della logica razionale che lo colloca nel mondo dei contrasti rendendolo compatibile con il convivere: c’è di più. Esso è anche “emotivamente parziale” perché seleziona tra diverse emozioni quella che in quel momento più sanziona in modo netto la veridicità di una posizione e la cristallizza.

Dovremmo riscoprire l’importanza del “velo” davanti ad ogni “vero” perché così ci ricorderemmo che vero non è. Quel velo è il dubbio, l’altro, la prospettiva diversa. Mediare tra le emozioni è ancora più difficile che mediare i concetti con la logica razionale. Immaginiamo di dover tenere un referendum o di esaminare una legge sulla produzione energetica nucleare dopo un disastro in un impianto che ha prodotto molti danni. Esito facile: negheremmo l’attività delle centrali nucleari. Dopo 30 anni, costretti a produrre in altro modo l’energia elettrica, scopriamo che con altre tecniche abbiamo innalzato i livelli di inquinamento atmosferico con importanti esternalità negative sull’ambiente. A quel punto convertiremmo le centrali in nucleare perché l’incidenza dei potenziali incidenti è statisticamente minima rispetto alla certezza dell’inquinamento prodotto dalle altre modalità o perché vedremo foto di volatili uccisi dallo smog piuttosto che petrolio in mare che copre le spiagge?

Emotività chiama emotività in un circolo vizioso di legittimazione delle emozioni. Dietro ad ogni emozione c’è un assoluto percepito come “giusto” su di un piano di parametri soggettivi in un brodo di buone intenzioni. Il punto è che dovremmo spezzare questo circolo che autoalimenta la “prossima emozione” ossia la “prossima verità” con un impegno che non deve estirpare le emozioni ma collocarle nel contesto logico, renderle gestibili. Serve una comunicazione che ritrovi le parole, che sono i numeri della logica, mezzo insostituibile. Più parole insomma (e qui si aprirebbe una lunga discussione sulle immagini…). E tra le parole serve rilegittimare a pieno titolo in particolare le congiunzioni avversative arricchendo la comunicazione di anzi, eppure, ma, però, tuttavia, bensì e quelle eccettuative (tranne che, eccetto che, salvo che, se non che, a meno che). Nel mondo globale dove tutto è connesso e complicato tendiamo a semplificare scatenando e sfruttando le emozioni.

Il diritto è l’arte della mediazione formale delle idee e degli interessi e si adegua nella forma per raggiungere la sostanza del risultato che è suo compito perseguire. La giurisprudenza in questo aggiunge un complesso e articolato lavoro di bilanciamento, connessione e raccordo che tiene insieme le regole, i principi e i valori con un abbondante impiego di congiunzioni “anti verità” e adotta decisioni. Fino ai casi di cronaca nei quali si manifesta innanzi ai tribunali per invocare la “sentenza giusta”, l’appagamento dell’emozione in certi casi magari di vendetta punitiva. Pensate a certi miti del “normativismo emozionale”: “abolizione della povertà”, “pene esemplari”, “certezza della pena” oppure “guerra a…” con la categoria che emoziona in quel momento piuttosto che alla riforma di turno che “salva” la categoria odiata o amata di turno (“salva ladri”, “salva corrotti”…). In questo possiamo ben dire che c’è un ruolo dei media non sempre attento a non cavalcare le emozioni e che opera semplificando. Perché comunicare le emozioni pretende un certo grado di semplificazione.

Proprio quando servirebbe una educazione alle emozioni, assistiamo al loro sfruttamento, anche da parte della stampa che adesso ne è purtroppo ingiustamente vittima. Quante volte nel titolo del quotidiano troviamo espressioni eccessive ed esemplificatrici? Quante volte nella descrizione della notizia troviamo aggettivi e avverbi che suscitano interesse al clic emozionando, incuriosendo chi cerca una emozione? Un tema antico, certo, ma oggi sarebbe utile che la rivoluzione delle parole che già interessa il diritto (pregi e difetti della questione) sia esportata nella comunicazione tradizionale e nuova dei media. Senza questa attenzione il circo(lo) delle emozioni rischia di essere una giostra dalla quale si scende tutti molto stremati, politici, giuristi e giornalisti. Volevamo uscirne emozionati e ne usciremo emaciati?