Tempo fa, a cena, si discuteva con alcuni amici di Intelligenza Artificiale quando, all’improvviso, una docente di un liceo ha chiesto: “Ma voi siete pro o contro?”. La domanda era risultata talmente spiazzante che avevamo risposto con alcuni secondi di silenzio. Che solo uno di noi era riuscito a rompere, ribattendo: “È come se chiedessi se siamo favorevoli a usare il pianoforte perché, in caso contrario, si potrebbe suonare il clavicembalo”. Fulminante. Ecco: dovremmo ripensare a cosa significa quella “A” di IA, perché la lente culturale attraverso cui si guarda alle tecnologie getta una luce diversa sulle sue minacce ma anche sulle sue promesse.

Troppi dati

È vero che, come dice chi si occupa di salute mentale, l’eccessivo affidamento agli strumenti di Intelligenza Artificiale sul lavoro rischia di danneggiarla. E questo rende comprensibile la ragione per cui – ci dicono i sondaggi – se quattro persone su dieci si aspettano che l’IA porti dei benefici, tre su dieci prevedono danni significativi. La tecnologia promette guadagni di produttività, scrive Thomas Roulet – docente a Cambridge – sul FT, ma un focus esclusivo sulle macchine potrebbe erodere la socializzazione e i tradizionali modi di collaborare sul posto di lavoro: McKinsey stima che oltre il 70% delle aziende utilizza l’Intelligenza Artificiale in almeno un’area della propria attività, migliorando le prestazioni e l’acquisizione di conoscenze. Ma una ricerca, pubblicata sul Journal of Management, ha anche evidenziato che un sovraccarico di informazioni offusca la concentrazione dei dipendenti e li sommerge di dati, il che compromette le loro prestazioni e il loro recupero.

Il rischio di solitudine

Trascurare i costi cognitivi e considerare solo i benefici tecnologici, insomma, potrebbe mascherare i rischi associati all’implementazione dell’Intelligenza Artificiale, in particolare quando si tratta di salute mentale: un altro studio, pubblicato sul Journal of Applied Psychology, dimostra che più le persone interagiscono con l’IA per raggiungere obiettivi lavorativi, più sperimentano la solitudine. C’è però un lato positivo: secondo Roulet, i dipendenti tendono a compensare le interazioni con l’Intelligenza Artificiale, cercando di aiutare gli altri colleghi in difficoltà, il che indica una spinta naturale che i datori di lavoro dovrebbero incoraggiare. L’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale generativa sul posto di lavoro può aumentare l’efficienza, ma ha bisogno, dunque, che le aziende progettino adeguate barriere di protezione, per garantire che i guadagni della tecnologia siano bilanciati da azioni volte a promuovere connessioni sociali, collaborazione e monitoraggio dei rischi di burnout. Ecco perché vale la pena riflettere su tre punti spesso ignorati sull’attuale antropologia dell’IA e che potrebbero aiutare a inquadrare questo paradosso in modo più costruttivo. Innanzitutto, sì, i sistemi di apprendimento automatico sono “artificiali”. Tuttavia, i bot non sostituiscono i nostri cervelli umani come alternativa alla cognizione in carne e ossa. Invece, di solito, ci consentono di operare più velocemente e di muoverci più efficacemente attraverso le attività. Quindi, forse, dovremmo riformulare l’IA come intelligenza “aumentata” o “accelerata”.

Vedere l’IA in modo diverso

Secondo punto: dobbiamo pensare oltre la cornice culturale della Silicon Valley. Finora gli “attori anglofoni” hanno “dominato il dibattito” sull’IA sulla scena mondiale, come notano gli accademici Stephen Cave e Kanta Dihal nell’introduzione al loro libro, Imagining AI. Questo riflette il predominio tecnologico degli Stati Uniti. Ma altre culture vedono l’IA in modo leggermente diverso. Per esempio, il Giappone: il pubblico giapponese ha da tempo mostrato sentimenti molto più positivi nei confronti dei robot rispetto alle controparti anglofone. E questo si riflette ora anche negli atteggiamenti verso i sistemi di Intelligenza Artificiale. Perché? Un fattore è la carenza di manodopera in Giappone (e la diffidenza nei confronti degli immigrati e una più facile accettazione dei robot), un altro è la cultura popolare. Nella seconda metà del XX secolo, quando film di Hollywood come Terminator o 2001: Odissea nello spazio diffondevano paura per le macchine intelligenti, il pubblico giapponese era affascinato dalla saga di Astro Boy, che rappresentava i robot in una luce benigna. Il suo creatore, Osamu Tezuka, ha attribuito questo approccio all’influenza della religione shintoista, che non traccia confini rigorosi tra oggetti animati e inanimati, a differenza delle tradizioni giudaico-cristiane.

Un dibattito costruttivo

Terzo punto: le nostre reazioni all’IA non devono essere scolpite nella pietra, ma possono evolversi, man mano che emergono cambiamenti tecnologici e influenze interculturali. Il punto chiave è che le “culture” non sono come scatole sigillate e statiche. Sono più simili a fiumi lenti, con rive fangose, in cui scorrono nuovi corsi d’acqua: un’immagine che potrebbe aiutarci a riformulare il dibattito in modo più costruttivo.

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Ho scritto “Opus Gay", un saggio inchiesta su omofobia e morale sessuale cattolica, ho fondato GnamGlam, progetto sull'agroalimentare. Sono tutrice volontaria di minori stranieri non accompagnati e mi interesso da sempre di diritti, immigrazione, ambiente e territorio. Lavoro al The Watcher Post.