L'intervento
Intercettazioni a strascico, falsa sicurezza che sacrifica i diritti
La sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 51 del 2020 (più nota come sentenza Cavallo) costituisce – e non è un’iperbole retorica – uno spartiacque fondamentale nella vita democratica del nostro Paese. Istintivamente stavo scrivendo “rivoluzione”. Quel sostantivo sarebbe stato sbagliato perché non ci troviamo al cospetto di una rottura, ma del recupero di taluni principi di garanzia e di libertà di cui è intriso (o per molti versi era intriso) il nostro codice di procedura penale. Come è noto, l’articolo 270 del c.p.p. statuisce il divieto di utilizzazione delle intercettazioni disposte ed effettuate in un procedimento diverso rispetto a quello in cui le si intende utilizzare, salvo che le suddette intercettazioni risultino necessarie a provare un reato per il quale è previsto l’arresto obbligatorio (cioè una categoria ristretta di reati molto gravi).
Una norma semplice, chiara, di agevole interpretazione e applicazione pratica. E, tuttavia, negli anni questa norma è stata progressivamente stravolta e svuotata di significato, anche a causa del “sostanzialismo” che caratterizza la parte maggioritaria della magistratura italiana che ha sempre visto anche come fumo negli occhi i divieti e gli sbarramenti probatori, intravedendo in essi un limite al principio del libero convincimento del giudice.
Si è iniziato in passato, dunque, ad affermare che non poteva parlarsi di “diverso procedimento” se le due indagini (quella in cui erano state disposte le intercettazioni e quella in cui le si intendeva materialmente utilizzare) erano connesse. Ma ciò non era ancora sufficiente, perché i casi di connessione in senso proprio previsti dal codice di procedura all’articolo 12 sono limitati e predeterminati per legge.
E allora, ecco il cavallo di Troia: il cosiddetto collegamento probatorio che, secondo una giurisprudenza andata per la maggiore dalla fine degli anni ’90 sino alla recente sentenza delle Sezioni Unite, consentiva di ritenere che si fosse in presenza di un medesimo procedimento e dunque di utilizzare in maniera indiscriminata le intercettazioni, di fatto, in qualunque procedimento. In tal modo, per anni lo sbarramento probatorio di cui all’articolo 270 c.p.p. è stato – salvo casi clamorosi e rarissimi – di fatto azzerato atteso che un collegamento probatorio tra due procedimenti lo si trovava sempre.
È nato e si è alimentato così quel fenomeno di “pesca a strascico” attraverso il quale lo strumento intercettazioni veniva gettato a casaccio in mare aperto come un’esca attendendo, sulla riva o sul motoscafo, di raccogliere ciò che rimaneva impigliato. Quasi tutte le inchieste più spettacolari degli ultimi anni sono nate così e sappiamo la gran parte di esse come sono finite proprio a causa del fatto che spesso un’intercettazione captata per puro caso, e quindi al di fuori di un’intelaiatura investigativa complessiva, si presta a tragici equivoci.
Utilizzando l’idiota slogan secondo il quale «chi non commette reati non ha nulla da temere dalle intercettazioni», si legittima il controllo senza limiti su tutti i cittadini. Che cosa significa in concreto la violazione dell’articolo 15 della Costituzione che tutela la libertà e la segretezza delle comunicazioni? La conoscenza da parte di chi è al potere della sfera privata e intima delle persone – con la concreta possibilità di utilizzare il privato di ognuno, pur non essendovi sovente ipotesi di reato – consente di “ricattare” potenzialmente ciascun sorvegliato con la minaccia di rendere pubblico il privato delle persone anche attraverso l’amplificazione dei media sempre protesi a ingurgitare e diffondere appetibili gossip che aumentano l’audience.
Ma vi è un ulteriore aspetto che inquina la democrazia, anche prescindendo da un eventuale utilizzo “politicamente” ricattatorio e illegittimo delle intercettazioni. Chi è al potere in un dato momento storico, conoscendo in anticipo il pensiero riservato dei cittadini e delle opposizioni, “droga” il leale confronto democratico e acquisisce un vantaggio illegittimo che impedisce l’alternanza democratica al potere attraverso il controllo totale dei cittadini, trasformati via via sempre più in sudditi sorvegliati speciali.
Le Sezioni Unite hanno posto un argine – si auspica in maniera definitiva anche se il nuovo decreto intercettazioni che andrà in vigore il primo settembre 2020 rimescolerà tragicamente ancora una volta le carte, salvo saggi e immediati ripensamenti – a questa prassi illiberale e antidemocratica, sancendo che il collegamento probatorio non è categoria idonea a dar luogo alla medesimezza dei procedimenti e dunque a consentire l’utilizzazione di intercettazioni disposte in altri procedimenti. Occorre con soddisfazione prendere atto che, negli ultimissimi anni, le alte Corti (Corte Costituzionale e Corte di Cassazione) – dopo aver anch’esse in passato contribuito con talune loro decisioni al depauperamento delle garanzie e dei diritti individuali – stanno progressivamente cercando di recuperare una serie di principi garantistici di cui si è fatto strame negli ultimi trent’anni.
È plausibile che questo scatto di orgoglio della giurisdizione (in particolare ai suoi livelli più alti) costituisca il contraltare al populismo penale che, in modo sempre più rozzo e invadente, sta invadendo gran parte della politica e della società civile. Un tentativo, dunque, di saggio bilanciamento volto a riportare al centro l’individuo, i suoi diritti e le sue libertà. È il momento di abbandonare pregiudizi e preconcetti che inquinano il dibattito e che, di fatto, rendono inutile e fasullo il dialogo tra chi ha posizioni differenti. Occorre, nel discorso pubblico, utilizzare parole e ragionamenti intrisi di “onestà radicale”.
Non ho alcuna difficoltà, per esempio, ad affermare che forse (e il forse dipende dal fatto che, per il mio specifico professionale, conosco bene il carattere scivoloso e ambiguo che sovente assume la prova intercettativa) se l’intera popolazione italiana fosse intercettata, se esistesse un enorme server in cui far confluire le conversazioni di ognuno di noi, sarebbe scoperto e perseguito un numero di reati maggiore di quello che si riesce a scoprire oggi. Del resto, non era forse sicura e priva di rischi di insurrezioni politiche la D.D.R. tragicamente descritta nel film del 2006 “Le vite degli altri” di Florian Henckel von Donnersmarck, i cui protagonisti vivevano in un clima di reciproco sospetto immanente che può condurre finanche al suicidio? Qual è il tasso di libertà e di diritti che può essere sacrificato sull’altare della sicurezza, vero idolo della contemporaneità?
È il momento di compiere delle scelte e quella delle Sezioni Unite è proprio una scelta volta a ri-bilanciare i vari valori e interessi che entrano talvolta in conflitto. E allora la legittima aspettativa di sicurezza – senz’altro importante, ma non suscettibile di fagocitare tutto il resto – deve cedere spazio ad altri importantissimi valori, quali in primis la libertà degli individui che negli ultimi anni sono stati compressi quasi sino al punto di non ritorno. Ne “La Conversazione” di Francis Ford Coppola del 1974, Gene Hackman da controllore che intercetta finisce per smontare ossessivamente pezzo per pezzo il proprio appartamento, convinto di essere a sua volta intercettato. È questo il futuro distopico alla “Blade Runner” che vogliamo?
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