Ray Donovan è una serie cult di Netflix il cui protagonista è un elegante faccendiere di origine irlandese che sistema i casini di star, atleti, produttori e vip vari nella Los Angeles patinata e corrotta degna della migliore tradizione, con profluvio di omicidi, ricatti e intimidazioni. Nel sistemare i casini altrui a volte deve usare la violenza, anche estrema. Impiega con dimestichezza armi, pugni, automobili di lusso e telefoni.  Ecco, i telefoni. Le conversazioni telefoniche che Donovan intrattiene con sodali e clienti sono di questo tenore: «Quell’idiota di Matt si è fatto prendere la mano e gli ha sparato». Oppure: «Sei un bastardo, va bene, passa dal mio ufficio e fatti dare i soldi dalla mia segretaria», o ancora: «Mickey, vai alla stanza 341 dell’Hilton.

Quel cretino di Steve è pieno di droga con una prostituta morta nel letto. Bisogna ripulire tutto». Fiction, certo. Tanta. Ma per un italiano che la guarda, quelle conversazioni non possono che risultare esotiche. Mai e poi mai qualcuno parlerebbe così al telefono a Milano o Roma, neanche in una fiction. Il telefono da anni in Italia ormai è come la Kriptonite per Superman: la somma debolezza. Si dicono poche cose al telefono in Italia, e se proprio si deve pronunciare qualcosa di rilevante si usano tali e tante circonvoluzioni da risultare sospetti oppure comici. Perché tutto questo? Perché noi italiani sappiamo che intercettare le nostre conversazioni è facile, facilissimo.

Tutti ci sentiamo potenzialmente ascoltati e la cosa grave è che per ciascuno di noi è diventato uno stato normale. Ed è anche diventato normale che se abbiamo ruoli rilevanti o cognomi illustri le nostre conversazioni le possiamo ritrovarle pubblicate su questo o quel giornale, spesso selezionate con accorti taglia e cuci per fare notizia e per dimostrare tesi, col risultato di distorcerne il significato e rovinare per sempre non solo la nostra privacy ma anche la nostra reputazione. Non perché abbiamo commesso un reato, quello è secondario. Ma perché per tutta la vita resteremo immortalati in quel modo, pronunciatori di frasi manipolate che squarciano la nostra riservatezza e ci consegnano ad un’immagine che non corrisponde alla realtà. Criminalizzati a prescindere.
In Italia l’uso e la pubblicazione indiscriminati delle intercettazioni sono diventati una vomitevole barbarie, a cui ci siamo sottomessi. E da ora in avanti andrà anche peggio. Il decreto in esame in questi giorni al Senato che ne rivede la prassi ne consentirà un uso ancora più sfrenato e manipolatorio.

La mediazione al ribasso che le forze politiche di maggioranza hanno messo in campo ridurrà ulteriormente la riservatezza di ciascuno di noi e lederà in modo ancora più grave un diritto costituzionalmente protetto (dall’articolo 15), quello della segretezza delle nostre comunicazioni. Con questo decreto saremo consegnati davvero ad un regime da Grande Fratello dove tutti potranno intercettare tutti. Se prima si poteva spiare, ma occorreva una legittimazione pesante per farlo, adesso si potrà semplicemente spiare. E ai pm verrà dato ulteriore margine di manovra per spiare meglio.

Ma non basta: l’utilizzo del famigerato Trojan trasformerà i 104 milioni di sim presenti in Italia in altrettanti potenziali microfoni che registreranno le nostre conversazioni, la nostra vita. Una situazione intollerabile, che fa strame di ogni diritto al proprio privato. Intercettare un presunto colpevole, un sospettato al di là di ogni ragionevole dubbio, è certo doveroso, se utile alle indagini. Trasformare 60 milioni di italiani in microfoni a caccia di presunti colpevoli è vergognoso. E’ un altro disonorevole capitolo della politica giustizialista di questo governo, privo di ogni ritegno nel procedere spedito verso uno Stato che non governa cittadini, ma potenziali criminali.

Un altro capitolo, dopo quello che abolisce la prescrizione, che conferisce ai pm poteri abnormi sulla nostra vita e sulle nostre libertà. In altri stati civili, anche nell’America di Ray Donovan, non si gioca con le garanzie costituzionali. Da noi invece sì. Perché quando si sceglie di perseguire una persona, anziché un reato, il fine giustifica i mezzi. Tutti i mezzi.