Le intercettazioni non colpiscono solo i diritti della persona e per una giustizia giusta. Hanno lasciato per terra un’altra vittima: esangue, umiliata, senza più un filo di voce autorevole. Questa vittima si chiama informazione: di carta, web e televisiva. Decenni di intercettazioni sbattute sulle pagine dei giornali, hanno cambiato anche il modo di fare informazione, hanno modificato il rapporto che i giornalisti hanno con le notizie.

Invece di indagare, approfondire, verificare la fonte, tutto è di colpo più facile: basta prendere le intercettazioni fatte delle procure, non preoccuparsi della privacy o della dignità delle persone e pubblicare tutto, sperando di vendere di più. L’apice lo abbiamo raggiunto con Berlusconi: tutto, ma proprio tutto, è stato ripreso da media. Spesso il penale non c’entrava per nulla. E con la scusa della morale, molti giornali hanno proposto pagine e pagine che di morale avevano poco, trasudavano invece moralismo, perbenismo. E ferocia.

In nome della libertà di espressione, ormai è passata l’idea che si possa e debba mettere in piazza la vita privata delle persone e se, dicono qualcosa di sbagliato, le si sottopone al pubblico ludibrio. Inutile ricordare come una parola fuori contesto assume un significato diverso da quello originale, ancora più inutile sottolineare come una dichiarazione fatta in privato non ha la stessa valenza di una dichiarazione pubblica. Ciò che conta è spiare, osservare gli altri dal buco della serratura come davanti alla scena primaria, quella che secondo Freud mette tutti davanti alla scoperta della sessualità dei propri genitori. E qui troviamo una seconda vittima di questa messa in scena che sa tanto di gogna, lettori, spettatori e quindi cittadini e cittadine che in questi anni si sono nutriti di questi racconti.

Abbiamo letto le vite degli altri, abbiamo sorriso, a volte anche riso, delle altrui debolezze, abbiamo fatto processi sommari sulla base di un dialogo, di una frase, di un altrui risata. Siamo diventati spietati. Le intercettazioni non ci hanno reso più sensibili, più attenti, più solidali. Al contrario hanno spezzato la possibilità di identificarci nell’altro: nei suoi errori, nelle sue debolezze, nelle sue paure. Quando leggiamo questi racconti, trascritti quasi sempre malamente e ora scopriamo anche distorcendo il significato, dimentichiamo d’un colpo millenni di cultura, di storia, di letteratura. Se con Fëdor Dostoevskij abbiamo avuto la possibilità di entrare nella testa e nel cuore di un assassino, di perdonare il suo gesto, leggendo i resoconti dello spionaggio delle procure, siamo diventati solo più cattivi, insensibili, pronti a giudicare e condannare l’altro.

Nel romanzo La Panne di Friedrich Dürrenmatt un pm, un giudice, un avvocato e un boia si divertono a rifare i grandi processi del passato oppure si accaniscono su persone prese a caso, convinte, come Davigo “che tutti abbiano una colpa da nascondere”. I quattro un giorno incontrano un commesso viaggiatore, a cui si è rotta la macchina e a cui danno ospitalità, che viene processato e condannato. A morte. Lo scherzo finisce in maniera tragica, perché l’imputato per gioco si toglie la vita per davvero. Il terribile gruppo oggi è composto anche da giornali e tv. E da tutti noi. Finché quelle intercettazioni non sconvolgono anche le nostre vite, la nostra privacy. Ma c’è chi continua a chiamare la loro pubblicazione libertà di espressione.

Almeno cambiamogli nome e chiamiamola, più precisamente, libertà di spiare e di linciare, con la benedizione dell’Ordine dei giornalisti e della Federazione nazionale della stampa che o non dicono nulla o difendono questa barbarie. Il romanzo di Dürrenmatt, che è anche un film con Alberto Sordi, ha come sottotitolo: una storia ancora possibile…

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