Il “nuovo Pd” tra discontinuità e riproposizioni di vecchi riti. Il Riformista ne discute con Andrea Romano, professore di Storia contemporanea all’Università di Roma Tor Vergata, già parlamentare Dem, membro del Comitato costituente chiamato a redigere il manifesto del Partito “rifondato”.

C’è chi invoca una Epinay Dem. Chi guarda in direzione di un socialismo del Terzo millennio e chi punta su un liberalismo temperato. Come portare a sintesi, si sarebbe detto un tempo, visioni così distanti nel “nuovo Pd”?
Nei momenti di crisi le organizzazioni devono tornare alla missione fondamentale per la quale sono nate, provando a ritrovare le ragioni di fondo della loro esistenza. E in questo momento il Pd non ha altra scelta che quella di tornare al suo ‘core business’: dare rappresentanza a quell’ampia parte d’Italia che chiede coesione sociale, crescita economica, integrazione internazionale. Una funzione che coincide naturalmente con l’opposizione a questa destra che nega la coesione sociale (perché diretta da stregoni della paura che fomentano fratture e divisioni), che nega la crescita economica di tutta la nazione (favorendo gli evasori e penalizzando il lavoro), che sta condannando l’Italia all’isolamento internazionale perché fondamentalmente non ha mai creduto nei vantaggi dell’integrazione europea e del multilateralismo. Al contempo ritrovare le ragioni di fondo del Pd significa rilanciare la sua natura di “grande tenda” di tutti i riformismi italiani: il Pd è plurale al proprio interno o non ha ragion d’essere. Per questo guardo con timore a coloro che pretendono di cacciare dal Pd questo o quell’esponente a loro parere poco ortodosso, così come non credo alle ricette di una rinascita “in purezza” del Pd sotto la stella fantasiosa di un “nuovo socialismo” promosso da una nuova “lotta di classe” (qualunque cosa voglia dire nel 2022) o verso gli orizzonti di un liberalismo scolastico che in Italia non ha mai avuto consistenza solida e popolare. Sono suggestioni pericolose, che condannerebbero il Pd all’estinzione perché negherebbero la sua funzione politica e sociale. Il Pd non può che essere culturalmente ibrido nella sua natura di partito popolare, perché nella sua sostanza quotidiana e concreta è il riformismo italiano ad essere assai più ricco e articolato di quanto vorrebbero i vari maestrini d’ideologia”.

Hai voglia di parlare di contenuti, identità, quando poi tutta l’attenzione finirà per concentrarsi sulla corsa alla segreteria. Alla ricerca di un o una leader su cui poi concentrare il fuoco amico. Siamo alle solite?
Non vedo niente di male in un congresso tra candidati diversi alla segreteria, perché la discussione su contenuti e identità non è in alcun modo alternativa a quella sulla leadership. D’altra parte a sinistra è urgente ritrovare un rapporto normale con la leadership, perché nell’ultimo ventennio abbiamo oscillato nevroticamente tra una rappresentazione salvifica del leader (come se una personalità forte cancellasse di per sé la necessità dell’argomentazione politica) e una uguale e contraria dove qualsiasi tratto di personalizzazione è stato demonizzato in termini moralistici. In tutte le democrazie mature leadership e contenuti politici vanno insieme. E lo stesso è opportuno che avvenga finalmente anche nel Pd, senza aspettative di palingenesi e senza irrealistiche negazioni della personalizzazione della politica. Nel nostro caso, sarà il nuovo segretario (o la nuova segretaria) del Pd, con il nuovo gruppo dirigente che l’accompagnerà, a guidare la necessaria fase di riflessione collettiva sui nuovi contenuti della nostra proposta politica. Semmai sarei stato più cauto nell’evocare una “fase costituente” del Pd: l’aggettivo “costituente” non può essere utilizzato con leggerezza, trattandosi di un atto fondativo che normalmente si associa all’apertura di una fase storica completamente nuova. Tanto più se per “fase costituente” si intende nei fatti il rientro nel Pd di alcuni esponenti che ne erano usciti, di fronte al conclamato fallimento della scissione di Articolo Uno: il che di per sé è certamente una buona notizia, ma non coincide esattamente con l’avvio di una stagione nuova di zecca nella storia della politica e della sinistra italiana”.

Enrico Letta vorrebbe un Pd più “pugnace”, da combattimento. Cos’è, una indiretta ammissione che fino ad oggi il Pd è stato “molle”, magari perché “governista” a tutti i costi?
L’accusa di “governismo” è la più strampalata tra quelle ascoltate in questi due mesi di “analisi della sconfitta”. Al di là dell’ipocrisia di coloro che criticano il “governismo” dopo aver svolto ruoli di governo, c’è da domandarsi quale lettura degli ultimi anni di storia italiana la sostenga. Dal 2020 il nostro paese è stato colpito in pieno dalla pandemia e poi dagli effetti dell’aggressione russa all’Ucraina, dopo un 2019 che l’aveva visto isolato in Europa per le scelte scellerate del governo Conte-Salvini. È stato sacrosanto assumere funzioni di governo di fronte ad una serie di emergenze nazionali, anche responsabilità e interesse nazionale sono valori fondanti del Pd. Valori che abbiamo declinato al meglio, rifiutando l’irresponsabile comodità di stare alla finestra – come ha fatto FdI – gridando alla “dittatura sanitaria” mentre il paese rischiava la catastrofe. La nostra sconfitta è figlia di molti errori. Io ne isolo due, tra i tanti. Il primo è stato non aver scelto con decisione la strada della riforma in senso proporzionale della legge elettorale, come ci eravamo impegnati a fare sostenendo (a ragione) la riduzione del numero dei parlamentari. E il secondo, di cui il primo è figlio, è aver riproposto all’Italia uno schema “tardo-ulivista” da anni Novanta. Uno schema legato ad una stagione nobile del centrosinistra, ma oggi del tutto inadeguato ad un’Italia da cui è scomparsa qualsiasi traccia di bipolarismo. In quello schema il Rosatellum – per quanto da tutti considerato una pessima legge elettorale – è stato comunque tollerato per il suo valore artificialmente maggioritario. Mentre un proporzionale con soglia di sbarramento avrebbe favorito a destra la scomposizione tra soggetti molto distanti ma tenuti insieme dalla brama di potere e a sinistra ci avrebbe risparmiato l’agonia delle alleanze mancate o delle alleanze riuscite ma del tutto irrilevanti. Una duplice agonia che in campagna elettorale ha consumato gran parte delle nostre risorse politiche.

Il 2023 è anche anno elettorale. Si voterà in due grandi regioni, Lombardia e Lazio, oltre che in Friuli-Venezia Giulia e Molise. E già è iniziato il “balletto” delle alleanze: chi guarda ai 5Stelle di Conte e chi ad Azione di Calenda. Lei come la vede?
Alle elezioni regionali è buona norma che siano le diverse realtà territoriali ad esprimere lo schema di gioco, evitando di calare dall’alto soluzioni nazionali. È quanto sta avvenendo in Lombardia e nel Lazio, e mi pare una buona notizia. Sui Cinque Stelle eviterei di ripetere lo stesso errore che ci ha accompagnato nella scorsa legislatura: quello di caricare di significati ideologici un rapporto che non può che essere pragmatico e centrato sulle cose da fare. Tra il 2018 e il 2022 sui Cinque Stelle abbiamo detto tutto e il contrario di tutto: da “nemico numero uno” sono diventati (almeno per alcuni) il sostituto di quella “sinistra purissima” che si immaginava irraggiungibile dal Pd; poi da un giorno all’altro sono stati precipitati di nuovo nel girone dei dannati. Un eccesso di ideologismo che ha lasciato un gran senso di confusione nell’elettorato e che ha limitato un approccio più pragmatico ad un’alleanza dove, nei fatti, il Pd è stato il fratello maggiore che ha spinto M5S a posizioni più sensate e costruttive di quelle massimaliste su cui erano nati e alle quali sono tornati una volta sganciati dall’alleanza. Noi stessi non abbiamo creduto fino in fondo alla funzione pedagogica che stavamo esercitando nei fatti, cedendo ad una narrazione ideologica che abbiamo prima alimentato e di cui poi siamo stati vittime. È lo stesso rischio che corriamo ora verso il cosiddetto Terzo Polo: in realtà si tratta di due piccoli partiti personali costretti a stare insieme per non scomparire nelle urne, ma già divaricati dalla gara a chi entrerà per primo nel (secondo?) governo Meloni. Di “moderato” c’è assai poco da quelle parti, a partire da un estremismo e una spregiudicatezza da “populismo centrista”. Eppure, secondo lo schema tardo-ulivista di cui sopra, continuiamo a confondere questa ennesima incarnazione del trasformismo italico con la rappresentanza virtuosa ed esterna a noi di un mondo moderato che – se mai è esistito negli anni Novanta – oggi dovrebbe essere tra i traguardi naturali del Partito democratico. In fin dei conti il nostro problema di fondo è questo: con il Pd disponiamo di una “infrastruttura politica” di primaria grandezza e di grande valore, come gli stessi italiani ci confermano ad ogni votazione riconoscendoci una funzione fondamentale di rappresentanza nonostante tutti i nostri autogol; ma noi stessi non riusciamo a crederci abbastanza, scegliendo di imbarcarci prima nella costruzione e poi nella demolizione di cattedrali ideologiche che spesso annebbiano la nostra capacità di navigazione.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.