Il discredito sul Csm inizia prima del caso Palamara
Intervista a Claudio Martelli: “Il fango che ha travolto le toghe è colpa dell’Anm”
Il pianeta giustizia rivisitato da Claudio Martelli, Ministro di Grazia e Giustizia dal febbraio del 1991 al febbraio 1993, vice presidente del Consiglio, esponente di primo piano del Partito socialista italiano, ed oggi direttore dell’Avanti.
Molto si discute, e ci si divide, sulla riforma Cartabia, così come è stata licenziata dal Consiglio dei Ministri e approvata dalla Camera con il voto di fiducia. Lei come la pensa?
Penso che dobbiamo dire grazie a Mario Draghi e a Marta Cartabia per aver eliminato dalla nostra legislazione l’orrore giustizialista dell’abolizione della prescrizione dunque l’aspetto più incivile della legge Conte/Bonafede per altro votata prima anche dalla Lega e poi anche dal Pd quando l’una e l’altro sono stati al governo con i 5 Stelle.
Scrive Tiziana Maiolo: «Alla faccia della certezza del diritto, è il trionfo dei “salvo che”: dopo l’appello il processo può durare tre anni ma anche sei. Di certo c’è che il 70% delle prescrizioni si verifica durante le indagini preliminari e il primo grado. E che l’obbligatorietà dell’azione penale non esiste, esiste il totale arbitrio dei pm…». Insomma, è la vittoria del “travaglismo”?
Tiziana è generosa, veemente e anche esagerata. No, questa non è la legge di Travaglio e basta leggere gli argomenti e le ingiurie riservati da Travaglio a Draghi e a Cartabia per rendersene conto. Detto questo che alcuni processi – alla mafia, al terrorismo ecc – durino più di altri è nella natura delle cose. I processi al crimine organizzato sono più complessi e più lunghi di quelli con un solo imputato, la selezione delle prove e delle testimonianze valide più ardua. Tiziana ha ragione nel rilevare che il grosso delle prescrizioni avveniva nel corso delle indagini preliminari e il primo grado e su questo la legge è lacunosa e contraddittoria. Spero che i compromessi imposti dai 5 Stelle non si rivelino più forieri di abusi di quanto appaiono. Quanto all’obbligatorietà dell’azione penale interpretarla in modo intelligente e non scolastico dovrebbe essere compito della Corte Costituzionale, in assenza occorre una procedura di revisione per la quale oggi mancano sia il tempo sia la volontà politica della maggioranza parlamentare.
In un recente articolo sul “Corriere della sera” dal titolo: “Riforma della Giustizia: Toghe e doppie verità”, Paolo Mieli ha espresso, argomentandoli, un timore e un allarme. Il timore: «Che le loro istituzioni, a cominciare dal Csm, siano già sprofondate nel più assoluto discredito». L’allarme: «Che procure, passate alla storia come templi della legalità, siano oggi sconvolte da lotte fratricide». Che dire?
Che a dirlo sia anche Paolo Mieli per lunghi anni schierato con la Procura di Milano vuol dire che il vaso è proprio colmo. I garantisti e quanti hanno a cuore il buon funzionamento delle istituzioni e in particolare della magistratura non hanno aspettato l’ondata di fango sollevata dal caso Palamara. E, comunque, Mieli non va al fondo della questione: il Csm è sprofondato nel discredito da gran tempo cioè da quando la sua elezione e il suo funzionamento sono stati sequestrati dall’Associazione nazionale magistrati. Quello è il luogo in cui si unisce per i suoi scopi la magistratura politicizzata e clientelizzata, il luogo in cui le correnti ordiscono le loro trame, le loro spartizioni lottizzando nomine, promozioni ed esclusioni, trasferimenti e sanzioni disciplinari. L’Anm è il tempio delle correnti, l’epicentro che raccoglie e irradia il malcostume giudiziario.
La riforma della giustizia non si esaurisce con la Cartabia. Quali sono, a suo avviso, le questioni cruciali a cui dare risposta?
Cominciamo da quelle poste dai referendum radicali: separazione delle carriere, riforma del Csm, responsabilità civile del magistrato che sbaglia, gli abusi nella carcerazione preventiva, l’abrogazione della legge Severino che prevede la condanna e i suoi effetti di decadenza dalle cariche anche per chi sia stato condannato per un reato che tale non era al momento in cui fu commesso il fatto. Già queste riforme purificherebbero di parecchie storture il nostro sistema giudiziario riallineandolo almeno in parte con quello delle migliori democrazie. Suggerisco una ragionata depenalizzazione di reati che non minacciano la sicurezza pubblica non per “svuotare le carceri” ma per l’assurdità e l’inumanità di tenere in carcere malati di mente, tossicodipendenti per non dire dei tantissimi detenuti in attesa di giudizio e dunque innocenti fino a prova contraria. Aggiungerei di applicare finalmente il dettato costituzionale che mentre sancisce la piena autonomia e indipendenza dei giudici invitava – e invita! – il legislatore a definire con legge ordinaria l’autonomia e l’indipendenza dei pubblici ministeri. Dunque i padri costituenti avevano ben chiara la differenza sostanziale che c’è tra un giudice e un procuratore, sono i loro cultori accademici che se ne sono dimenticati. Infine è tempo di una riflessione sulla trentennale esperienza del codice Vassalli. Finché la parità nel processo e prima del processo – cioè nella fase delle indagini – non sarà assicurata nei fatti dall’autorità di un giudice dell’indagine dotato di veri poteri in molti di noi crescerà la nostalgia del giudice istruttore di un tempo cioè di qualcuno in grado di frenare l’esuberanza di troppi pubblici ministeri.
La metto giù un po’ brutalmente: perché al Pd e alla sinistra fanno così paura i referendum sulla giustizia promossi dai Radicali?
All’inizio di questa storia ci fu l’incontro tra l’uso politico della magistratura da parte dell’opposizione comunista e la vocazione a essere contropotere di una parte della magistratura. Poi la voluta confusione tra questione morale e questione politica e tra sfera morale e sfera penale. Non dimentichiamo che il Pci screditò persino Falcone perché Falcone non si piegò mai a un uso politico della giustizia. Quanto al Pd nasce dalla fusione a freddo tra gli ex comunisti del Pds e gli ex Dc di sinistra, le due correnti scampate o salvate da Mani Pulite con i loro leader, Prodi e D’Alema. Forse fu un empito di gratitudine forse altro, sta di fatto che Il primo nomina Di Pietro deputato del Mugello, il secondo lo fa ministro dei lavori pubblici. Purtroppo quella fu la pasta e quello il lievito poi montato a dismisura nel ventennio dell’antiberlusconismo. Ancora nel 2008 Veltroni il Buono preferì allearsi con Di Pietro anziché col partitino socialista del tempo. Ulivo e Pd hanno avuto ministri della Giustizia Flick, Diliberto, Fassino, Orlando eppure nessuno di loro si è mai distinto per un approccio, tantomeno una riforma, di stampo garantista. Ci sono state nella storia eccezioni importanti come quelle di Emanuele Macaluso e di Gerardo Chiaromonte, di Giovanni Pellegrino e di Luigi Manconi, ma mai una revisione di fondo che insegnasse a guardare la giustizia dalla parte dei cittadini anziché dalla parte dello Stato e del suo apparato repressivo. Fa impressione riflettere che quella sinistra convertita in un batter d’occhio dall’Urss agli Usa, dall’anti capitalismo al liberismo e alla globalizzazione, non ha mai avuto il coraggio di divorziare da quel cancro della civiltà che è il giustizialismo. Giusto ma forse ozioso chiedersi se i compromessi peggiorativi imposti dal Pd alla riforma Cartabia siano la coda di quella malattia o la conseguenza dell’irresistibile fascino di Conte e Bonafede. Una cosa non esclude l’altra.
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