La costruzione di un campo riformista. Un cantiere delle idee aperto. Un work in progress dal quale far emergere anche una leadership condivisa. Il Riformista ne discute con Emma Fattorini, storica, scrittrice, già senatrice del Partito democratico, docente di Storia contemporanea all’Università La Sapienza di Roma, una delle “menti” di Azione, il movimento guidato da Carlo Calenda.

«È ora di unificare le forze. C’è bisogno di una aggregazione liberale e socialista che elabori un progetto, ridia spazio alla politica, rimetta in moto anche le capacità di pensare della sinistra e della destra, dia scacco al qualunquismo…. Come risponde allo sprone di Piero Sansonetti?
Potrei rispondere con un elenco di proposte, che richiamano quelle già avanzate da Marco Bentivogli e da Ivan Scalfarotto negli interventi che mi hanno preceduto e sulle quali concordo in pieno E su cui c’è una intesa più che unitaria. Ma prima di individuare priorità e programmi vorrei sottolineare il cuore, la ragion d’essere stessa dell’esistenza di questa area. La proposta prioritaria, quella vera, quella che precede qualsiasi altra dovrebbe essere ridare un senso alla politica. Ma non semplicemente trovando qualche escamotage per lucrare un po’ di elettorato qua e là, quanto piuttosto andando alle radici profonde della sua crisi. Che sono culturali e identitarie prima di tutto. Solo così le persone si riavvicinano alla politica, che diventa attrattiva e non mero luogo di interesse individuale o corporativo. Intanto, per cominciare, quando parliamo di “una aggregazione liberale e socialista” non dobbiamo dimenticare la tradizione popolare. Perché se c’è un pensiero ricco e vitale, il più vitale di tutti è proprio quello popolare. Perché il popolarismo è una “forma speciale del liberalismo” e oggi è il vero e più efficace antidoto al populismo. Nasce nel primo dopo guerra per coinvolgere il popolo, le persone nella partecipazione politica, a cui non credevano più e da cui si erano allontanate, deluse dalla corruzione, l’incapacità, la voracità e il trasformismo delle classi dirigenti, dalla macchinosità burocratica di uno stato centralista e inefficiente, dalle insostenibili diseguaglianze sociali. Una concezione né statalista né partitocratica grazie alla pluralità di creative forme di partecipazione. I cosiddetti corpi intermedi, luoghi di aggregazione e non di potere corporativo. Ed è solo con questa postura che si può minare davvero l’astensionismo che è il vero problema, con tutto ciò che significa, con le domande che racchiude.

Altro tema molto sentito è quello delle alleanze. In una intervista a questo giornale Ivan Scalfarotto, una delle figure di primo piano di Italia Viva, fa discendere un’alleanza del campo riformista con il Partito democratico da una rottura dell’asse con i 5Stelle. Sulla stessa lunghezza d’onda è il leader di “Base Italia”, Marco Bentivogli. E per lei?
Assolutamente d’accordo. Anzi la necessità di questa rottura la vorrei vedere praticata con ancora più nettezza anche da Italia viva. E non per un principio astratto e schematico. Non è un tic maniaco-compulsivo. I Cinque stelle, che sono l’esito disastroso del distacco dalla politica, sono essi stessi il brodo di coltura del protrarsi di questo allontanamento. Per trasformismo strutturale, demagogia subliminale, astrattezza inconcludente e altri infiniti ossimori, ben espressi dallo sguardo di Di Maio dietro Mattarella e Macron. Assorto, attonito ma anche molto attento – perché lui, si sa, è un 5stelle “maturato” – lui che andava in Francia in sostegno ai gilet gialli o chiedeva le dimissioni di Mattarella. Così sull’antieuropeismo e sui vaccini ecc… infatti ritratta sempre e su tutto. E qui è chiaro che non parliamo della sacrosanta legittimità a cambiare idea e neppure dell’ennesima variante del vizio italico del trasformismo, no qui c’è qualcosa di più insidioso e corruttivo che mina nel profondo la stessa, possibile, credibilità della politica. E, ancora, non per astratte e moralistiche esigenze di coerenza ma per la seconda ragione di fondo che tiene insieme l’area liberal-socialista-popolare. E cioè che essa oggi deve essere propositiva, fattiva, e riformista e non limitarsi a reagire, a opporsi e resistere al pericolo di turno, magari sempre rivestito dello spauracchio fascista. Prima Berlusconi, poi Salvini e la Meloni come se davvero ci fosse stato il pericolo dei “pieni poteri”. Ecco, questo deve essere il nostro progetto e per questo appoggiamo quello di Draghi. Che vive di questo spirito. E allora per venire alla vostra domanda: sulle proposte c’è una obiettiva convergenza di contenuti, ma è forse sull’idea di politica, su un uso spregiudicato della tattica, sul rapporto mezzi-fini – per scomodare Machiavelli – che ci sono sensibilità anche molto diverse.

Un campo si definisce per visione, progettualità, un programma fondamentali condivisi, ma anche nell’indicazione di un leader. Sansonetti avanza una proposta: Maria Elena Boschi…
Forse è presto per parlare di chi sarà il leader o la leader. Non sappiamo ancora come saranno composte le alleanze. Credo che procedere ora con una sommatoria politicista di sigle le penalizzi tutte e ancora di più farlo sulle singole individualità. Ma lavorare sui temi e i problemi, insieme alle persone, questo sì che si deve fare. Prima del cartello elettorale è meglio procedere per potenziare l’area sui contenuti e il consenso nei territori. È quello che sta facendo Carlo Calenda, avviando contemporaneamente il congresso di Azione. Nessuno si illude che si possa traslare a livello nazionale il modello della campagna su Roma, ma io credo che quello sia stato un esempio strepitoso di buona politica: per la capacità di coinvolgere i giovani, portarli fuori dal cinismo, le disillusioni e la rassegnazione. Calenda, per queste ragioni, mi sembra il leader obiettivamente più nuovo in questo momento, quello che, secondo me, coniuga una pragmatica capacità e una solida competenza, insieme ad una visione politica innovativa. Faccio un esempio: la sua critica alla globalizzazione, (che parte da una sua autocritica del suo pensare e agire liberale-liberista ). I limiti di questo “governo del mondo” sono evidenti di fronte alla natura endemica che purtroppo, pur non drammatizzando, assume ormai il Covid. Dal quale non ci possiamo difendere stretti, come siamo noi privilegiati, su una piccola zattera, tracciando tenacemente i propri confini con il nastro adesivo o il silicone. Perché questo sono i muri e i fili spinati.

Molto si discute e si ipotizza sul futuro politico di Mario Draghi. C’è chi lo vorrebbe al Quirinale e chi invece ritiene che debba continuare a essere sulla plancia di comando di Palazzo Chigi per portare a termine la realizzazione del Pnrr. È solo questione di Colle (Quirinale) o Palazzo (Chigi) in cui “collocare” Draghi o dietro vi sono calcoli non detti?
La scelta è sempre più difficile, tra Scilla e Cariddi. La permanenza di Draghi a Palazzo Chigi per l’attuazione del Pnrr è certamente quella, direi l’unica, che più garantisce la gestione e le riforme. E resa sempre più necessaria dalle conseguenze degli stessi caratteri endemici della pandemia che credo siano un problema reale, e non solo strumentalizzato dalle forze politiche. Che pure lo fanno. Sono infatti tanti i calcoli, i non detti e i trabocchetti che aumenteranno sempre di più, in modo direttamente proporzionale alla mancanza di autorevolezza dei partiti. Alla fine la cosa davvero importante sarebbe che non perdessimo Draghi del tutto. Sia a palazzo Chigi che al Quirinale, da dove potrebbe “seguire” per alcuni anni un governo di Riforme.

Dal Covid ai migranti: le grandi emergenze del nostro tempo possono essere affrontate e risolte con una logica” emergenzialista” di corto respiro?
Da quanto tempo sappiamo che con una pandemia globale di questa portata non ci salva il chiuderci dentro i confini? «Date il vaccino all’Africa o il mondo non si salverà dal Covid», questo semplice appello lanciato da Githinji Gitahi, il responsabile della commissione africana di risposta al Covid-19, enorme nella sua cruda verità è quello, direi l’unico, che più mi ha colpito nei mesi del continuo vociare e gracchiare, indignarsi e minacciare sui sì-vax e no-vax, libertà e dittature. L’allarme, era ben noto, lo ricostruisce bene Walter Ricciardi in un editoriale sull’Avvenire di domenica scorsa. Era stato metabolizzato e poi rimosso senza liberalizzare i brevetti, e consentire la produzione locale nei paesi africani. Con un’Europa che sulle scelte grandi non c’è. Ed è lì, invece, che si deve misurare il nostro europeismo. Un altro esempio del nostro colpevole silenzio riguarda il tema dei diritti e l’Afghanistan. Dopo pochi giorni di indignazione incontenibile ora restiamo immobili di fronte alle donne segregate, ai bambini denutriti, morti di fame e le bambine vendute.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.