Sull’autonomia differenziata il governo rischia grosso. La Lega sogna il colpaccio ormai da anni, ma più passa il tempo e più i nodi vengono al pettine. Le 22 materie di possibile autonomia, regione per regione, diventano chimere: i governatori del Centrosud sono scettici quando non ostili. E alcuni, tra i governatori di destra come Occhiuto, in Calabria, gridano alla mobilitazione. Quasi un “No pasaràn” che mette in scena il testacoda del sovranismo, tanto lodato e declamato alle elezioni quanto poi tradito e contraddetto – perché inconsistente e inapplicabile – una volta entrati nelle stanze dei bottoni a Palazzo Chigi.

Nessuno oggi vorrebbe essere nei panni di Roberto Calderoli. Perché il ministro per gli Affari regionali – “e le Autonomie”, come adesso si chiama – sembra averlo capito. E se il centrodestra di lotta continua a vivere in una campagna elettorale permanente, il centrodestra di governo frena. Con Forza Italia e Fratelli d’Italia che chiedono alla Lega maggiore cautela, il coinvolgimento diretto delle Regioni e un percorso aperto in Parlamento. Succede così che la proposta di legge diventa una bozza. La bozza, un appunto. E quell’appunto, una brutta copia di lavoro sulla quale la Lega ha capito di non poter stare troppo sugli scudi. Per non parlare del centrosinistra che grida all’attentato alla Costituzione. Il governatore della Campania, Vincenzo De Luca è tornato sui tre motivi principali per cui rigetta la bozza del decreto sull’autonomia regionale presentato dal ministro Calderoli in conferenza Stato-Regioni.

«Immaginano – ha detto De Luca – di avviare un percorso di nuova autonomia differenziata nelle Regioni in modo da danneggiare ulteriormente il Sud. Possiamo ragionare di decentramento di poteri partendo dalla distribuzione di risorse che ha visto penalizzato drammaticamente il sud; quindi, prima bisogna decidere i Livelli Essenziali Prestazioni (Lep), cioé decidere come fare le prestazioni in maniera identica in tutto il Paese, definendo i costi standard dei servizi. È ridicolo andare avanti senza aver deciso prima quali sono i Lep da garantire da Nord a Sud». Abbiamo sentito sull’argomento il professor Gianfranco Viesti, economista, titolare della cattedra di Politica economica all’Università di Bari.

L’Autonomia differenziata crea squilibri e diseguaglianze, professore?
Sì. Sia sul versante di come funziona lo Stato sia sul versante dei territori ci sarebbero conseguenze nefaste per la coesione e sul piano dell’uguale diritto a fruire di buoni servizi da parte di tutti gli italiani. Si potrebbe arrivare a minare le basi della civile convivenza così come l’abbiamo fin qui conosciuta, e a rimettere in discussione il portato della Costituzione.

Secondo lei c’è un problema di strategia politica, di visione?
Questa proposta viene dal passato. Da una vecchia battaglia leghista volta a ottenere per il Nord sempre più potere e più denaro. Questa battaglia si sta oggi intelligentemente rivestendo di questa possibilità di autonomia differenziata, interpretata in senso estremo. È difficile da giudicare perché manca di una logica di governo, di un disegno complessivo che giustifica questo squilibrio di competenze.

Quali rischi vede?
Per la tenuta unitaria del Paese. Vedo una Italia fatta a pezzi. A coriandoli. Con due regioni del tutto autonome, altre tre semiautonome, altre tre che provano a imboccare la strada senza fari accesi. Una regione in cui non ci si riesce a curare bene, un’altra in cui i parametri dell’istruzione sono tutti strani… Il servizio sanitario nazionale deve al contrario diventare elemento strategico dell’interesse nazionale, come ci ha insegnato la vicenda Covid.

Ci sono materie sulle quali una democrazia unitaria non può negoziare?
Le competenze sulla sanità, sull’energia, sulla scuola, su infrastrutture e sull’ambiente sul lavoro non possono diventare oggetto di declinazione regionale. L’efficacia dell’azione pubblica si ha dal governo nazionale e dalle politiche europee, per loro natura.

Anche la scuola, professore? I Veneti vogliono introdurre l’insegnamento del Veneto nelle scuole della futura regione federale veneta…
(Ride) Poi lo voglio vedere un neolaureato che cerca lavoro e mentre i suoi colleghi europei parlano almeno quattro lingue, e sempre più imparano anche il cinese, scrive nel suo curriculum di parlare bene il veneto. Si preclude il 99% delle opportunità. Non siamo ridicoli, per favore.

Serve intanto una legge quadro.
Dal punto di vista giuridico la situazione è complicatissima. Molti giuristi sostengono che non serve una legge quadro, perché non ha potere cogente rispetto ai poteri dello Stato.

Potrebbe servire a condividere i criteri generali?
Ammettiamo che così fosse. Ma questa legge quadro dovrebbe esprimere la volontà politica di indicare cosa vuoi decentrare o meno. Qui c’è un grande fraintendimento: il presidente Zaia dice che in queste ventidue materie possiamo chiedere tutto, e quindi lo chiediamo. Bene. Ma va detto che chiedere non può significare ottenere. Bisogna andare a condizionare i casi. Governo e Parlamento in rappresentanza di tutti gli italiani devono esprimere una valutazione non sulla fattibilità giuridica ma sulla opportunità politica di avere una o venti scuole regionali in Italia. Serve una legge quadro se mette dei paletti, se individua priorità e criteri.

Io ho la sensazione che la Lega ci farà una campagna elettorale permanente. Calderoli dice che la pratica va chiusa entro il 2023. Come si può chiudere questa partita?
È una vicenda interessantissima. E ricca di colpi di scena. Il grande assist alle tre regioni del Nord lo ha fatto Gentiloni il 28 febbraio 2018 con una preeintesa con le Regioni. Non gli portò fortuna: pochi giorni dopo è finita l’esperienza del centrosinistra. Poi è arrivato il Conte 1, con un ministro come Calderoli che lo dava già per fatto (con un ministro che giocava nella squadra delle Regioni, più che in quella del Governo) e invece quando il Consiglio dei ministri gialloverde doveva approvare il provvedimento, è caduta la maggioranza.

Ora Calderoli, un po’ scottato, ci va piano. Dice di voler procedere per intese progressive.
Le bozze delle intese, che avevano preparato Zaia e Stefani, io le ho viste. Sono lunghissime, ma non hanno il succo. Le specifiche competenze, il personale da trasferire alle Regioni è demandato alle commissioni paritetiche. Nel momento in cui si firmasse una intesa così ampia, tutto il potere andrebbe in mano a una commissione tecnica, con effetti irreversibili.

Arrogandosi un potere costituzionale? Sarebbe devastante.
Sarebbe un colpo di stato bianco, un golpe tecnico. Una forzatura irreversibile sull’unità nazionale. Il succo sta nei dettagli. Immagino una lunghissima discussione parlamentare a valle della quale si decide di demandare il compito di negoziare il trasferimento dei poteri alle Regioni a una commissione paritetica. Altro che Calamandrei.

Avatar photo

Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.