Il “campo largo” evocato da Enrico Letta, tra scissione nei 5Stelle e i risultati dei ballottaggi nelle amministrative. Gianni Cuperlo, presidente della Fondazione Pd, più che “largo”, quello del centrosinistra appare un campo accidentato.
Partirei dai dati. Nei ballottaggi di domenica quel “campo largo” su cui spesso si è ironizzato ha mostrato una sua vitalità. La vittoria di Tommasi a Verona deve molto al profilo del candidato, espressione di un civismo capace di motivare energie del centrosinistra e attirare elettori dell’altro schieramento. Ma non c’è stata solo Verona che pure è un risultato enorme se pensiamo che lì, solo alcuni anni fa, la destra più reazionaria consacrava la sua ideologia nemica dei diritti. Penso a Monza, Parma, Piacenza, Alessandria, Cuneo, Catanzaro. Questo era un turno dove noi rincorrevamo, insomma giocavamo fuori casa, e invece la linea dell’apertura, con un perimetro ampio di alleanze sociali prima che politiche, consegna un risultato che pochi avevano previsto. Di contro, la destra dopo mesi di certezze sulla vittoria in cassaforte si sveglia divisa e ammaccata. Pensando di avere già un piede a Palazzo Chigi si sono guardati in cagnesco nell’idea che la sfida fosse tutta in casa loro. La verità è che la Lega ha rischiato di indebolire il governo mentre Giorgia Meloni non è riuscita a cucirsi un abito di affidabilità. Ora, guai a cadere nello stesso errore e pensare che per noi la strada al 2023 sia in discesa, ma non c’è dubbio che in questo principio di estate la scena descrive un centrodestra lacerato e un centrosinistra di nuovo consapevole dei propri mezzi, e aggiungo dei propri valori e di una classe dirigente apprezzata sui territori.

La rottura nel Movimento 5Stelle. Si è parlato e scritto di uno scontro di potere tra Conte e Di Maio. Basta questa chiave di lettura “personalistica” per spiegare l’accaduto? E nel campo largo c’è posto per tutti?
Insisto, quel “campo largo” deve costruire le sue alleanze anche fuori e oltre la somma delle sigle e dei simboli di parte. Sento evocare la stagione dell’Ulivo, ma ricordiamoci cosa fu quella operazione: l’incontro cooperativo tra il mondo dell’impresa sana, produttiva, l’arcipelago del lavoro e l’universo della cultura e delle sue istituzioni a partire da scuola e università. Quella miscela di competenze e battaglie riuscì a mettere in movimento migliaia di persone, associazioni, i comitati “per l’Italia che vogliamo”, movimenti civici e tematici, tutto questo rese possibile un successo che solo due anni prima pareva un miraggio, battere la destra a trazione berlusconiana. Voglio dire che l’Ulivo non fu una alchimia di palazzo o la foto opportunity di qualche leader in cerca di domicilio. Fu un processo partecipato che creò un senso di appartenenza e alimentò attese in buona parte deluse per la chiusura anticipata e traumatica di quella pagina. Ma il metodo seguito allora, per quanto aggiornato all’era dei social, quello conserva la sua capacità di organizzare forze altrimenti disperse. Per riuscirci, però, servono generosità e una visione dell’Italia che vogliamo lasciare in dote a chi verrà dopo. Ecco perché, col rispetto dovuto a un movimento che ha appena vissuto una scissione, penso che la sorte del centrosinistra sia qualcosa di più ambizioso che non compilare pagelle su questo o quel protagonista della scena. Quanto alla domanda se c’è posto per tutti la risposta che mi sento di dare è no: qui non si tratta di costruire un caravanserraglio comunque sia, tanto meno strizzando l’occhio al ritorno sulla scena del motto “oltre la destra e la sinistra”. Adesso la scelta dirotta sui contenuti e su un programma di traguardi, di vere riforme, che non può dipendere dal veto dell’uno, dell’altro o dalle scomuniche preventive a opera di un fantomatico “centro”.

Tradotto, lei crede che sia giunto il tempo per archiviare l’idea, cara a certa politologia nostrana, per cui si vince se si occupa il centro?
Non mi permetto di dare lezioni, ma che quella rincorsa affannosa verso il centro dove il traffico è quasi intasato oggi ignori le dinamiche elettorali nel resto d’Europa e i fenomeni in atto nella stessa democrazia americana a me pare conferma di un qualche scollamento del ceto politico dalla realtà.

Ha scritto su questo giornale Angela Azzaro: “Tornati al punto di partenza dello scacchiere, forse si può finalmente ragionare non di alleanze tattiche, ma di questioni politiche. E allora la domanda non è se il Pd sta con Di Maio o con Conte, ma se sceglie di essere Macron o Mélenchon. Se cioè preferisce andare a collocarsi al centro, diventando l’aggregatore delle diverse forze che in questo momento gravitano intorno a quell’area, supponendo che gli altri siano disposti a farglielo fare. Oppure si rimette a fare la sinistra, lasciandosi alle spalle draghismo e populismo…”. Lei come la vede?
Penso che sulla logica dei modelli da “importare” abbiamo già dato e quasi mai con esiti brillanti. Una volta erano Clinton e il blairismo, poi è stato il turno di Zapatero, dopo ancora Corbyn, Bernie Sanders, l’elenco è lungo. Adesso la scelta sarebbe tra Macron e Mélenchon? Mi permetto di dire che non sarà un “papa straniero” a risolvere i nostri problemi. Altro è porsi la domanda se la sfida con la destra si risolverà nella conquista del blocco sociale più moderato o in un recupero dei tanti, tantissimi, che la tempesta perfetta, crisi-pandemia-guerra, ha precipitato sul fondo della fila. Però anche in questo caso non mi appassiona una querelle astratta, non credo che siamo dinanzi a una geografia di sigle da cui dipenderà il risultato. Peseranno il merito delle proposte, il coraggio di un disegno del paese. Mélenchon ha chiesto di abbassare l’età pensionabile a sessant’anni e immettere quasi un milione di nuovi assunti nella pubblica amministrazione. Non sono ricette valide pari pari per noi e quindi insisto, non abbiamo bisogno di bussare alla porta degli altri. Detto ciò penso che per parlare a una maggioranza non basterà vestire i panni della responsabilità, tratto che dopo questi mesi complicati nessuno può negarci. Avremo bisogno anche di una nostra radicalità da far vivere nei messaggi fondamentali della campagna elettorale. Riconquistare la pace nel continente, fare dei diritti umani una bussola coerente, mettere in cima la dignità della vita a cominciare da un salario e un lavoro decenti, ricostruire la rete della sanità pubblica e di prossimità, garantire un fisco basato su una vera progressività, presidiare e promuovere la trama dei diritti civili anche come antidoto ai venti reazionari che soffiamo da oltre oceano: l’agenda per una alternativa alla destra esiste, sta a noi renderla necessaria per una maggioranza degli italiani.

Come incide la guerra anche nelle scelte di politica interna?
La guerra è tragedia, sono morti, fosse comuni, stupri. La priorità assoluta è fermare questo massacro. Certo che una simile follia incide anche sulla vita delle persone e delle imprese. Dietro le tabelle sull’incremento delle bollette o del costo del carrello della spesa ci sono milioni di famiglie alle prese con un impoverimento ulteriore. Il dato sui minori in condizioni di povertà assoluta è una vergogna che impone misure d’urto. La linea di Draghi su un price cap europeo al prezzo del gas aiuterebbe le nostre economie impegnate a diversificare le fonti di approvvigionamento chiudendo i rubinetti russi, applicherebbe una sanzione pesante alle risorse che Mosca destina alla guerra e toglierebbe una quota di extraprofitti alle aziende che si arricchiscono con le energie fossili. Quanto alle tonnellate di grano ferme nei silos dal 24 febbraio aprire corridoi di deflusso sminando quel tratto di mare è la garanzia contro una catastrofe umanitaria dalle conseguenze devastanti.

Rimane il tema di come fermare questa guerra.
Sì, ho detto che quella è la priorità sopra tutte. Ed è un capitolo che in qualche modo si lega alla dipendenza energetica e all’emergenza alimentare. Il punto è capire a cosa vogliamo finalizzare il ventaglio di aiuti, anche militari, al governo di Kiev. Se a “vincere” la guerra sul campo o dall’alto con i costi relativi in termini di vite e distruzione o se l’Europa nel suo nucleo più solido e omogeneo – Italia, Francia, Germania e Spagna – lavora a coinvolgere Washington e Pechino in una trattativa che eserciti ogni pressione su Putin perché si sieda a un tavolo e si disponga a una tregua e uno sbocco. Lo si può fare solo con il coinvolgimento e assenso del governo ucraino. Tornare alla situazione precedente il 24 febbraio è la condizione minima dopo l’atto sciagurato voluto da Putin con l’invasione militare di uno Stato sovrano sapendo che, come detto dal presidente Mattarella, il futuro dell’Europa dev’essere una nuova Helsinki.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.