«Un consiglio al Pd e al suo nuovo probabile segretario? Conti gli iscritti e non le poltrone e provi a disintossicare la nomenclatura dalla droga del governismo». A sostenerlo è il professor Luciano Canfora, filologo, storico, saggista, una “coscienza critica” della sinistra. Professore emerito dell’Università di Bari, membro del Consiglio scientifico dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana e direttore della rivista Quaderni di Storia (Dedalo Edizioni). Tra i suoi libri, ricordiamo: Fermare l’odio (Laterza); Il sovversivo. Concetto Marchesi e il comunismo italiano (Laterza); Il presente come storia; Europa gigante incatenato (Dedalo), e il recentissimo La metamorfosi (Editori Laterza), sulla storia del Pci nel centenario della sua fondazione.
Professor Canfora, in una intervista a questo giornale, Paolo Mieli ha offerto un consiglio al Partito democratico: «Caro Pd, butta a mare gli ultimi 30 anni e fatti un sano giro all’opposizione». Visto che siamo in tempi di consiglio, condivide quello dell’ex direttore del Corriere della Sera e di suo che aggiungerebbe?
Ho sempre avuto molte perplessità sull’operazione nascita del Pd, ma questo ormai riguarda il passato remoto. Nella situazione presente, il consiglio numero uno è fare l’inventario veridico degli iscritti, valutare seriamente la possibilità di ripristinare un sistema di sezioni territoriali e quindi di federazioni a cui le sezioni rispondono. Organizzare un vero Congresso senza consultare i passanti con la buffonata delle primarie. Secondo punto, abbandonare questa retorica vuota europeistica, e invece occuparsi della condizione concreta dei lavoratori dipendenti e dei ceti medi schiacciati dalla crisi. E poi, non ultimo, il grido d’allarme lanciato da Mieli mi sembra giusto, e cioè stare sempre al Governo, anche subalternamente con l’operazione Draghi, diventa una droga. Allora liberatevi di questa droga.
I dem, accusa sempre Mieli, «hanno rinunciato ad essere un grande partito sociale della sinistra, ma è quello che devono tornare a essere». È una sfida ancora proponibile?
Certo che è proponibile. Perché non è che i problemi sociali sono scomparsi. Ci sono, si sono moltiplicati, articolati in modi diversi rispetto al passato. Al centro dell’agenda di un partito quale quello che auspica Mieli, e io con lui, non può che esserci la lotta alle disuguaglianze sociali. In questa chiave, l’interlocuzione con il movimento sindacale era un fatto fondamentale nella vita dei partiti di sinistra, in tutta Europa. In Gran Bretagna, i laburisti senza le Trade Unions non esisterebbero. Le Trade Unions sono l’azionista di maggioranza del Labour, giustamente perché la storia inglese è quella lì. Ma anche in Paesi come la Germania, che sono sempre al centro dello sviluppo degli avvenimenti, il partito socialdemocratico, l’Spd, che non gode buona salute ma che per fortuna è ancora in piedi, ha il suo interlocutore principale nel sindacato. Invece qui da noi sembra quasi che snobbisticamente i sindacati li ignoriamo. Loro sono l’unica vera finestra sulla realtà per un partito, il Pd, diventato molto elitario e poco popolare.
Enrico Letta, nello sciogliere la riserva e accettare l’invito-appello dei maggiorenti dem a candidarsi a segretario, ha affermato, in un video su Twitter: «Oggi sono qui dove lunedì scorso non avrei mai immaginato per candidarmi alla guida di quel partito che ho contribuito a fondare e che oggi vive una crisi profonda. Lo faccio per amore della politica e passione per i valori democratici». Per poi aggiungere: «Credo nel valore della parola. Invito tutti a votare sulla base delle mie parole. Sapendo che non cerco l’unanimità ma la verità nei rapporti fra di noi per uscire da questa crisi». È una sfida, una illusione o cos’altro?
Intanto è una formulazione molto onesta, che va apprezzata proprio per questo. Naturalmente all’uomo che sta per entrare nella fossa dei leoni -uso una espressione metaforica naturalmente- non si può chiedere più che una prospettiva metodologica. Ed è quello che fa. Una prospettiva metodologica, quella tratteggiata dal nuovo probabile leader del Pd, che, per quanto mi riguarda, è del tutto condivisibile, perché fondata, fra l’altro, sul concetto della verità, cioè della corrispondenza tra le parole e le cose. E non è da poco. Mi accade spesso di ripetere che la politica è verità. Non si può barare con i fatti. I fatti sono più pesanti delle nostre astuzie. Le regole di metodo che lui prospetta sono del tutto condivisibili, ovviamente per ora è un’operazione di vertice. Perciò, come dicevo, bisogna ricostruire una struttura che era la gloria del Partito comunista italiano, e che fu imitata…
Da chi?
Dalla Democrazia cristiana, ad esempio. Negli anni dell’immediato dopoguerra, la Dc non raggiungeva i due milioni di iscritti che aveva allora il Pci, ma ne contava oltre un milione, ed era anch’essa un grande partito popolare. La Dc imitò immediatamente la struttura territoriale del partito comunista, perché quella era l’unica maniera per non perdere i contatti con la realtà. Questo è prioritario. Certo, non si fa dall’oggi al domani, questo è chiaro, perché è più facile distruggere che ricostruire, come è noto, ma, secondo me, è l’unica via possibile. D’altra parte nel panorama odierno qual è il partito che nei modi suoi propri, imita il modello del partito che si collega alla realtà attraverso le strutture di base? Quel partito è la Lega. Se l’avversario, usiamo questo termine nobile, ha adottato quel metodo, vuol dire che era buono.
Uno dei nodi politici che il nuovo probabile segretario dovrà sciogliere è quello del rapporto con i 5Stelle. In che direzione, a suo avviso, questo nodo dovrebbe essere sciolto?
Sembra una domandina da niente, e invece è una domandona. Lo stesso Movimento 5 Stelle è diviso tra quelli che vogliono allearsi con il Pd e quelli che non lo vogliono affatto. Loro costituiscono un movimento abbastanza caotico sul piano organizzativo: hanno convocato Conte e sul campo l’hanno praticamente nominato leader, con una procedura abbastanza stravagante. Comunque, diciamo che Conte è diventato il leader dei 5Stelle, e questo è sicuramente un punto a favore di chi, dentro il Pd, vuole collaborare organicamente con i 5Stelle, perché Conte questo desidera. Per il Pd, però, c’è un problema mica da niente…
Vale a dire?
La “zavorra” in casa. E cioè i cripto-renziani o i palesemente renziani che tutto vogliono tranne questa alleanza. Fanno di tutto per distruggerla, e con la pugnalata di Renzi in gennaio, in parte c’erano riusciti. Il vero problema per Letta sarà stanare, far venir fuori questa “zavorra interna”. Che se ne vadano da Renzi. Il mio, sia chiaro, non intende essere un giudizio moralistico, ma una considerazione politica. Se il Pd vuole provare ad essere quello che Mieli ha indicato, non può imbarcare tutti. Ed è questo, mi si permetta di dire, il vizio d’origine del Partito democratico: perché una cosa è dar vita ad una coalizione di centrosinistra altro è trasformare questa coalizione in un partito unico. D’altro canto, è stato lo stesso Renzi a definire superato, obsoleto, il concetto di “sinistra”. Se vuole avere un ruolo propositivo, che si proponga come “federatore” di cespugli centristi. Mi auguro che anche su questo Letta dica, come ha promesso di fare, parole chiare. Afferma di non cercare l’unanimità. Sta a lui fare in modo che ciò non accada. Altrimenti, se fossi in lui stare poco sereno…
A proposito di unanimità. Un’altra cosa da cui il Pd si dovrebbe disintossicare, oltre il “poltronismo”, non è l’unanimismo di facciata?
Diciamo di sì, anche se va rimarcato che è una liturgia sempre meno attuale, perché non mi pare che vadano all’unanimità su quasi niente. So bene che un tempo si rivolgeva questa accusa al Pci, che vietava le correnti, il centralismo democratico e via discorrendo, ma quella è un’altra storia. Oggi non mi pare proprio che il difetto principale del Pd sia di andare all’unanimità. Al contrario, c’è una fronda costante, e la più insidiosa è proprio quella di chi vuole l’esatto contrario di ciò che intende la maggioranza del partito. Mi riferisco ai “renziani”. Non va dimenticato, che l’operazione “pugnalata” fatta da Renzi, ha avuto un antefatto tempo prima, che stupì gli osservatori. Quando Conte era sotto attacco per i famosi Dpcm, e qualcuno diceva oibò, chi lo attaccò in pieno Senato? Marcucci, cioè il capogruppo al Senato del Pd. E questo accadeva parecchio prima delle “idi” di gennaio. Il problema vero è questo.