La guerra “cronicizzata”. La narrazione di Putin e un mondo che si scopre ingovernabile. Il Riformista ne discute con uno dei più autorevoli storici italiani: Marcello Flores. Il professor Flores ha insegnato Storia comparata e Storia dei diritti umani nell’Università di Siena, dove ha diretto anche il Master europeo in Human Rights and Genocide Studies.

La guerra è entrata nel suo quarto mese. C’è il rischio di una sua “cronicizzazione” magari voluta da chi punta alla sconfitta della Russia più che alla liberazione dell’Ucraina?
O magari da chi non vuole una sconfitta della Russia abbastanza rapida e che quindi dà, come ha lamentato il presidente ucraino Zelensky, poche armi o comunque non le armi giuste per potersi difendere al meglio in questa fase dell’attacco che continua e che sembra essere abbastanza vincente nel Donbass.

Quale ragione o interesse vi sarebbero, a suo avviso, dietro la negazione denunciata da Zelensky?
Io credo che i motivi siano molti e diversi. Intanto perché in ogni Paese, e l’Italia credo che da questo punto di vista primeggi, c’è una opinione pubblica che è galvanizzata sia dai politici sia da gran parte dei media, a favore di una “pacificazione” che significherebbe di fatto una sostanziale resa dell’Ucraina. E poi perché legata a questo c’è il problema che continua a non voler o poter essere risolto come si dovrebbe, della dipendenza energetica, soprattutto per il gas e in parte per il petrolio, dalla Russia, che sarebbe il modo in cui rapidamente le sanzioni metterebbero in ginocchio la Russia, costringendola quindi a negoziare.

Dal punto di vista dei nuovi equilibri di alleanza, una novità è rappresentata dalla richiesta di ingresso nella Nato avanzata da Svezia e Finlandia. Una super Nato per una piccola, politicamente e militarmente parlando, Europa?
La richiesta di adesione alla Nato di Finlandia e Svezia sia dovuta al fatto che quei Paesi che hanno decenni di serio neutralismo alle spalle, hanno capito che l’aggressione russa ha modificato storicamente gli equilibri internazionali. Ne hanno preso atto e di conseguenza hanno fatto la scelta che per loro è più funzionale agli interessi di difesa e di sicurezza nazionale. Il fatto che chiedano di entrare nella Nato rafforza indubbiamente il ruolo dell’alleanza Atlantica, che negli ultimi anni è sempre andato un po’ scemando, e quindi anche il ruolo degli stati Uniti al suo interno. E questo rende forse più problematici, anche se magari non nell’immediato, i rapporti fra Europa e Stati Uniti. Non è un caso che alcune potenze europee, in primo luogo la Francia, hanno detto sì, benissimo, possono entrare ma tanto ci vorrà un sacco di tempo prima che l’ingresso si realizzi. È un modo per lasciare sostanzialmente le cose come stanno. È vero che c’è bisogno, proprio per la rottura che ha rappresentato l’aggressione russa dell’Ucraina, di nuovi equilibri e dunque anche di nuove forme di rapporto solido fra l’Europa e gli Stati Uniti, ma questo è difficile farlo mentre è in corso la guerra e ci sono posizioni se non distanti certamente un po’ diverse su come aiutare l’Ucraina, con quali tempi e con quali strumenti. Credo però che si tratti di un tema che non potrà essere eluso, perché su questo vi sono evidentemente dei punti di vista diversi…

Vale a dire?
Pensiamo, ad esempio, al rapporto con la Cina. È uno dei nodi strategicamente più rilevanti che dovranno essere affrontati e possibilmente sciolti. Per mantenere ferma l’alleanza occidentale ma anche non pensare che possa continuare ad essere legata e subordinata alla priorità militare che è in mano della Nato e degli Stati Uniti.

Quella che si sta combattendo non è solo una guerra guerreggiata. È anche una guerra “mediatica”. Da questo punto di vista, lei ritiene che in questi quasi 100 giorni di conflitto, la narrazione di Putin, in particolare all’interno, si sia modificata?
Verso la popolazione russa, a me sembra che sia stato accentuato l’elemento di ammissione di cose che peraltro i russi ormai sapevano, perché non dispongono soltanto, per fortuna, dei canali ufficiali. E così si parla di guerra e non, come vorrebbe la narrazione ufficiale, di “operazione” militare. Si parla delle difficoltà militari. Allo stesso tempo, però, questa presa di coscienza è accompagnata dall’inasprimento delle minacce nei confronti di quanti si vorrebbero muovere al di fuori della logica ufficiale della Russia di Putin. Per adesso si tratta soprattutto di minacce, perché gran parte dei processi intentati contro coloro che avevano partecipato a manifestazioni contro la guerra, sono di fatto rinviati e non si sa bene quale sarà il livello vero della repressione nei confronti di migliaia di persone che hanno detto “niet” alla guerra. La minaccia c’è e questo comporta, ad esempio, che siano sempre di più le persone che abbandonano la Russia. E questo potrebbe avere un peso nel futuro, perché si tratta in genere di una parte rilevante dell’intellighenzia tecnico-scientifica e umanistica di quel Paese.

L’interesse dimostrata dall’Europa, anche a livello di opinioni pubbliche, verso una guerra esplosa nel cuore del vecchio continente, è comprensibile e apprezzabile. Ma a questa empatia fa da contraltare se non l’indifferenza certo la distanza dei restanti due terzi del pianeta. E’ solo una questione geografica, di distanza chilometrica dal teatro di guerra o c’è anche dell’altro?
Penso che due terzi del pianeta siano in realtà estremamente parchi d’interesse e di conoscenza di quello che avviene a livello mondiale. Il fatto che in Cina si parli poco o nulla di questo conflitto è legato alla logica di quel regime che non parla di tante altre cose. Teniamo inoltre conto che in diverse parti del mondo ci sono altri conflitti che per quelle regioni sono più drammatici di quello in atto in Europa con l’invasione russa dell’Ucraina. E questo è anche indice di una mancata percezione della particolare gravità e novità di quell’aggressione militare rispetto ad altri conflitti che ci sono stati e che continuano a esserci. E poi perché questa guerra è vista un po’ come qualcosa che riguarda la Russia e l’Occidente, la Russia e l’Europa. A ciò va aggiunta la sollecitazione da parte russa o cinese che è meglio disinteressarsene e non approfondire troppo, visto che molti di quei Paesi hanno legami soprattutto con la Cina. Un combinato disposto che fa sì che vedano lontano un conflitto che ha luogo in Europa.

Sulla base della sua lunga esperienza di studioso, di storico, lei non ritiene che quello in cui viviamo sia un mondo sempre più diseguale e disattento, per usare un eufemismo, al rispetto dei diritti umani?
Che lo sia di più, sarei cauto ad affermarlo. Nei decenni indietro, se si escludono alcuni brevi anni fra la fine del secolo scorso e in parte, ma non ovunque, nell’inizio di questo, in realtà i diritti umani sono sempre stati abbondantemente calpestati, spesso con azioni che venivano spacciate come meritorie o comunque necessarie e inevitabili. È vero che ciò che avveniva prima, era dentro un orizzonte che sembrava chiaro. Era quello della Guerra fredda e in successione quello del post Guerra fredda, segnato dai tentativi di rafforzare con ogni mezzo il mondo democratico, anche con l’esportazione della democrazia o viceversa con la difesa una serie di regimi autocratici e dittatoriali. Oggi le cose sono più complicate e frammentate. E questo perché non c’è più una capacità di equilibrio internazionale, neanche nella deterrenza dal punto di vista militare, che permetta di evitare l’esplosione di conflitti con le tragedie umanitarie che ne sono seguite. Emblematico è ciò che è avvenuto in Siria, che fino a pochi anni fa è stato l’epicentro, il fulcro della violazione più terribile dei diritti umani. Lì si continuava a ragione e ad agire in modo strumentale a secondo se si pensasse che Assad potesse difendersi o che s’indebolisse, che i gruppi che lo attaccavano stessero vincendo, che l’Isis perdesse terreno… Manca una capacità di visione globale non dico di lungo ma quanto meno di medio periodo. La necessità di rispondere un po’ giorno per giorno in tante situazioni diverse, è quello che rende il presente più drammatico perché più incontrollabile. Ci sono troppe zone in cui è incontrollata anche dalle grandi potenze la possibilità che s’inneschino crisi e conflitti. Con il crollo del Muro di Berlino e dell’impero sovietico, si è dissolto il vecchio ordine globale, bipolare. Ma ad esso non si è sostituito un ordine multipolare in grado di determinare una nuova e più democratica governance mondiale. Siamo in una terra di mezzo. E questo non è stabilizzante.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.