Sovranismo e populismo in crisi
Intervista a Mario Tronti: “Solo Draghi ci rimetterà in piedi, la sinistra archivi l’Ulivo”
Se si vuole volare alto, politicamente parlando, oltre il mero tatticismo e il battutismo imperante, è buona cosa affidarsi alle riflessioni di Mario Tronti. Si può essere d’accordo o meno con lui, ma non c’è dubbio alcuno che le analisi del “padre” dell’operaismo italiano sono di quelle che lasciano il segno.
A mente fredda e chiamandoci fuori dagli abusati riti del dopo-voto, quali riflessioni si possono fare sulle recenti elezioni amministrative anche alla luce dell’onda astensionista?
A una settimana di distanza possiamo ragionare in modo più ponderato intorno a questo risultato senza dubbio significativo. Guardare un po’ più da lontano ci fa vedere più lontano. L’impatto sul clima politico infatti non sarà immediato, anche perché si legherà ad altre scadenze, in primis l’elezione del Presidente della Repubblica, con quello che ne potrà seguire. Sarei cauto a parlare di onda. Concordo con osservazioni già fatte, sulla differenza radicale tra voto amministrativo e voto politico. E soprattutto sulla diversità di comportamento tra elettori delle grandi città ed elettori di province e regioni. Ancora più cauto sarei circa l’affermazione fatta da sinistra: siamo usciti dalle Ztl. No. Il dato dell’astensione, abbiamo visto, sta ancora massicciamente nelle periferie. E quello è il dato che va profondamente analizzato. Ripoliticizzare quel voto a sinistra, che poi vuol dire politicizzare il disagio sociale, l’emarginazione, l’esclusione, la rabbia, che vediamo esprimersi come pretesto su argomenti anche non politici, è il compito più urgente da affrontare. L’elettorato grande urbano è in maggioranza conquistato in modo stabile. Bisogna concentrarsi sul resto del territorio, sulle medie e piccole città, sul tradizionale contado di centri minori, che si è molto trasformato, in parte si è omologato, in parte più grande si è rinchiuso, ma non è scomparso. Lì sta l’indifferenza alla politica e lì sta la destra.
Il voto nelle grandi città ha segnato una significativa battuta d’arresto per la destra. Come la vede in proposito?
La destra ha subito un brutto colpo. Adesso sappiamo che si può battere. È piena di contraddizioni. Unita formalmente, divisa sostanzialmente. Paradossalmente, direi, al contrario della sinistra: che è divisa formalmente e unita sostanzialmente. In Italia, per ragioni storiche, è un’illusione una destra liberale, moderata, accogliente, europeista. Infatti dal dopoguerra in poi si è sempre dovuta presentare come centro. Il passato anche in questo senso non passa. Ma non bisogna confondere tutto con il ritorno di un eterno fascismo. L’aggressione alla Cgil è stato un fatto gravissimo. E la reazione sindacale e politica è stata sacrosanta. Ma mi fermerei qui. Ha fatto bene Landini a S. Giovanni a richiamare i segnali di un malessere più generale. Sappiamo da tempo che il solo collante che tiene non unita ma unitaria la sinistra, e in grado di mobilitarne piazza e opinione, è l’antifascismo. Ora c’è bisogno d’altro. Non si chiede di rinunciare a questo quando si dice che questo non basta più. Come non si chiede di rinunciare alle battaglie sui diritti civili quando si invita a mettere in primo piano i diritti sociali. Sono le priorità dell’agenda che vanno riviste. La destra – nella contingenza qui da noi Lega e Fratelli d’Italia – va combattuta per quello che è, mirando a far esplodere la contraddizione tra il suo reale insediamento di popolo e la sua politica solo demagogicamente popolare. Ma per farlo occorre andare lì, insediarsi, organizzarsi, in alternativa, dove stanno loro: nelle periferie del paese, dal sud al nord, ai margini del vivere civile, in mezzo al rifiuto, alla protesta, alla paura, a tu per tu con quel male diagnosticato ma non guarito che si chiama rancore, individuale e di massa, muto o violento che sia. Le rivolte contro il green pass, strumentalizzate da frange estremiste, dicono di più rispetto al tema specifico. Quel di più è da capire e da affrontare.
In vista delle politiche del 2023, il centrosinistra deve concentrarsi sul come allargare il suo “campo”?
È necessario, a questo punto, disporre il fronte di battaglia sulla prospettiva delle elezioni politiche del 2023. Quello è il passaggio decisivo, da utilizzare bene. Non mi soddisfa questa ricerca prioritaria, puramente quantitativa, di un cosiddetto campo largo. Ci deve stare, certo. Ma prima viene l’elaborazione qualitativa della proposta. È su questa base che si aggrega. Vediamo che cosa verrà fuori dalle agorà del Pd. Anche qui, però, c’è il rischio di una pura sommatoria di richieste, se non c’è una direzione politica della consultazione che fissa i paletti delle questioni di fondo, con l’indicazione, appunto, di imprescindibili priorità. È stato detto: le risposte le sanno dare tutti, è per le domande che ci vuole genio. Esempio: non sarebbe l’ora di rovesciare il centro-sinistra in un sinistra-centro, con tutto quanto questo comporta. La Spd, che va a governare in prima persona con liberali e verdi è il modello. Lasciamo gli ulivi là dove stanno, nelle colline del nostro Belpaese. Diamo veste politica alle alleanze. Forse ci faremo meglio comprendere. È certo che non è dietro l’angolo la realizzazione di una simile prospettiva. Ci si arriva a piccoli passi. Forse non è nemmeno in vista per la legislatura prossima. Adesso è tutta da spendere con intelligenza la risorsa del governo Draghi. Questa personalità, che la buona Provvidenza ci ha mandato, secondo il mio e secondo altri più autorevoli pareri, deve restare dov’è, fino al 2023 e a sua insindacabile scelta anche oltre. C’è da rimettere in sesto questo Paese uscito da tempo fuori dai cardini. Pensateci per un momento per favore: si era arrivati a consegnare il destino della terza potenza industriale d’Europa nelle mani di un attor comico con la sua compagnia di giro. Non conosco altro paese d’Occidente in cui sia avvenuta una cosa del genere. Forse altrove. Ci vogliamo rendere conto di questo avvenuto disastro? Per risalire la china ci vuole un’intera stagione politica. Resilienza e ripartenza non è solo aver messo in mani sicure l’uso di risorse mai avute. È che, nel dopo Merkel, Macron in bilico e il Regno Unito fuori, con Draghi, e solo con lui, il paese Italia può ritrovarsi in posizione centrale nel continente Europa, a livello di Germania e Francia. Sarebbe un plusvalore enorme, che avrebbe una ricaduta interna su società, istituzioni e popolo. Dopo, a nazione risanata la sinistra potrà candidarsi a governare per un progetto di grande redistribuzione. È legge storica: non è possibile redistribuzione senza, prima, accumulazione della ricchezza delle nazioni.
La storia, lo sguardo lungo, intanto…
C’è, come al solito, il frattempo. Il passaggio più delicato. Qui, se non indovini lì le mosse giuste, può saltare tutto. Ma, dico, si può una buona volta pensare politicamente in termini strategici? O dobbiamo espiare fino in fondo questa condanna di correre affannati dietro il giorno per giorno? Sovranismo e populismo sono con tutta evidenza in crisi. Ma, attenzione, l’umore antipolitico di massa che ha dato vento a quelle vele è ancora lì e si esprime in altre forme. Piazze piene e urne vuote dicono questo. Ed è vero che quanto di buona efficienza tecnica esprime ora il governo Draghi contribuisce a oscurare e delegittimare la funzione dei partiti politici. Sarebbe quanto mai necessaria la ripresa di un loro protagonismo. Se non si rimettono in forma i partiti, non si riabilita la politica. E purtroppo a questo punto vedo più agibile la ripresa economica che una ripresa politica. E l’ostacolo sta tutto nella scarsa consistenza di pensiero e di azione dell’attuale ceto politico. Allora il Pd, a guida Letta, uscito bene in forma da questa tornata elettorale ha sul momento una grande occasione, che gli consegna una altrettanto grande responsabilità. Può fungere da volano per quel processo imprescindibile che dovrà vedere un ritorno di fiducia dei cittadini nella politica. Può farlo solo crescendo nei consensi, rilanciandosi nell’opinione, marcando la propria identità, ancora troppo incerta e confusa. È inutile dire: allarghiamo da quello a quell’altro, se prima non fai chiarezza in casa tua, chiarezza di sostanza e anche di immagine. Le alleanze vengono dopo che tu hai detto chi sei e che cosa vuoi fare, da che parte vuoi stare. Al centro di una rinnovata professionalità e vocazionalità va chiaramente indicato il sole del mondo del lavoro, intorno a cui far girare tutto il resto. Il lavoro umano è oggi un pluriverso sociale che va plasmato in universo politico. Un compito immane, per una nuova forma di civiltà che sbarri la strada a un incombente distopico postumano. Badate, non si tratta di un’astratta fuga in avanti. Fissato questo orizzonte di discorso, non dovrebbe risultare difficile passare a tradurlo in una pratica di azione quotidiana, capace di toccare il cuore delle persone più di tanta occasionale chiacchiera mediatica. Ma se non dici questo, e non fai questo, non dici e non fai l’essenziale per cambiare radicalmente l’ordine delle cose: e no assolvi al tuo compito.
Contenuti, certo, ma anche sedi, luoghi di confronto, procedure partecipative. In questo senso, come è messo il Pd?
Sento parlare di agorà, non sento più parlare di congresso, quello vero, che stabilisce la linea a partire da un lungo vasto profondo dibattito culturale di confronto, di ricerca, di analisi, di prospettive. Manca nel Paese un’offerta popolare, sociale e politica, programmatica e soprattutto progettuale. E c’è un vuoto da riempire. Insisto. Il frattempo offerto dalla contingenza di questo governo è una preziosa occasione per cominciare a ripensare sé stessi.
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