Da più di cinquanta anni il Censis fotografa la società italiana e descrive, dati alla mano, il sentire e il comportamento collettivo degli italiani. Massimiliano Valerii, che nel Censis di Giuseppe De Rita si è formato ed è cresciuto professionalmente e che oggi ricopre il ruolo di Direttore Generale, in questa intervista con l’Avanti! della domenica fa un bilancio dell’anno appena trascorso, anche alla luce del 56mo Rapporto sulla  situazione sociale del Paese.

Descrive un’Italia malinconica, stanca, crepuscolare, che dopo 30 anni di globalizzazione accelerata, ora è demotivata, non combattiva, quasi rassegnata. In uno stato, insomma, di latenza permanente. “La società del post populismo” e “la fine delle sicurezze” – così l’ha descritta Valerii –   dove vige l’incertezza e in cui si viene colti dalla percezione perenne del rischio di declassamento sociale. La conseguenza degli eventi straordinari accaduti negli ultimi anni, come guerra e pandemia, ma dove non è trascurabile la forte responsabilità delle forze politiche di sinistra che non hanno saputo interpretare le istanze del ceto popolare e il nuovo mondo. Una condizione generale che non è affatto transitoria, perché l’era del post populismo è appena iniziata.

Direttore, è tempo di bilanci: che 2022 ci lasciamo alle spalle?
Non facciamoci ingannare dai ristoranti pieni di questi giorni o dalle piste da sci affollate dai turisti: il carattere prevalente degli italiani in questo momento, se scaviamo a fondo, è all’insegna della malinconia. Macron qualche tempo fa ha detto: “è finita l’era dell’abbondanza”. Io la definisco “la fine delle sicurezze”.

Cosa ha portato gli italiani a provare questi sentimenti così crepuscolari?
Pensiamo agli eventi straordinari accaduti negli ultimi tre anni: prima una emergenza sanitaria globale, poi una guerra cruenta alle porte dell’Europa. Inoltre l’idea che si è sedimentata nell’opinione pubblica è che l’energia non è più un bene sempre disponibile in quantità illimitata. E c’è il tema della sostenibilità ambientale, dell’ecologismo, che è diventato il nuovo paradigma della cultura collettiva che ha determinato la fine dell’antropocentrismo, inteso come il dominio incontrastato dell’individuo sul mondo e sugli eventi. In sostanza abbiamo la sensazione di essere esposti a rischi globali fuori dal nostro controllo e quindi, come dicevo prima, alla fine dell’epoca delle sicurezze La chiusura di un ciclo con un mondo che non ritorna, l’incertezza diffusa, insieme alla percezione del rischio di declassamento sociale. Un tema che riguarda sì la società italiana ma che è anche un’inquietudine che scuote tutte le società occidentali.

E’ per questo che il Censis ha definito la società “post populista”?
Sì. Le rivendicazioni di equità sociale e le istanze di prospettive certe di benessere che emergono dai ceti popolari e dalla classe media, non sono più liquidabili come fossero aspettative irrealistiche fomentate da qualche leader politico demagogico che infiamma le piazze e parla alla pancia del Paese: sono invece l’espressione di questo cambiamento della storia.

Non sono quindi “rischi” che riguardano solo il nostro Paese?
Tutte le élite politiche dei paesi occidentali, al di là di quale sia la loro provenienza o appartenenza politica, stanno integrando misure di protezione per la classi medie. C’è ad esempio una perfetta continuità tra l’amministrazione Biden e il populista Trump sulle misure di protezionismo che riguardano i dazi contro la Cina. Come c’è anche una continuità dell’attuale governo Meloni e il predecessore Draghi, ad esempio, sulla critica alle misure, come il reddito di cittadinanza, portabandiera del M5s, il movimento che è stato classificato come populista.

 

Parlare di populismo ha ancora senso?
Usare la categoria politica del populismo oggi, nella nuova stagione in cui stiamo entrando, non ha più senso.  Chi non lo ha capito, ha pagato il prezzo più alto in termini di consenso elettorale. Penso, ad esempio, alla crisi di identità e di consenso del Partito Democratico.

Come va interpretata?
I ceti popolari, nonostante siano la base sociale storicamente di riferimento della sinistra, oggi votano a destra non più i partiti di sinistra, i quali, in passato, nella fase di crescita della nostra società, giustamente esercitavano una funzione politica che coniugasse la crescita economica con l’inclusione sociale: si preoccupavano cioè di estendere i diritti sociali e civili ad ampie porzioni dei ceti popolari e della classe media. Una stagione che però ci siamo lasciati alle spalle. Oggi ci troviamo in una fase diversa, in cui la base sociale chiede protezione e prospettive certe di benessere.

Questo non è stato compreso a fondo?
Si continua, sbagliando, ad usare l’espressione del populismo per criticare gli avversari politici. Trovo paradossale che soprattutto le forze politiche di sinistra non siano riuscite ad interpretare questo fantasma che ha cominciato ad agitarsi nelle coscienze dei ceti popolari e cioè, come dicevamo prima, il rischio di un declassamento sociale. Veniamo da un periodo in cui c’era un patto sociale non scritto, cioè quello della mobilità sociale ascensionale. Si trattava della promessa che i figli sarebbero stati meglio dei padri, che le nuove generazioni sarebbero andate incontro a condizioni sociali migliori di quelle che le hanno precedute. E in effetti, in passato, era andata così: i figli degli operai e dei contadini si sono ritrovati insieme ai figli della borghesia a formare il grande ceto medio italiano. In quel periodo storico la sinistra ha saputo interpretare quelle istanze di inclusine sociale, ora non più.

Qual è la fotografia di oggi?
L’ascensore sociale è bloccato e per la prima volta l’attuale giovane generazione è destinata a un futuro peggiore di quello dei padri. La sinistra non è riuscita ad elaborare un modo nuovo di stare al mondo nel nuovo mondo, che si è determinato dopo tre decenni di globalizzazione accelerata. E’ paradossale che il Pd, che qualcuno ha definito “il partito della Ztl”, prenda il voto dei centri storici delle grandi città, cioè nella parte più abbiente. E’ il tradimento della missione storica di un partito della sinistra. Il punto è elaborare il passaggio dalle radiose promesse della modernità che hanno determinato tutto il ciclo storico dal dopoguerra in avanti, ad oggi, ma che oggi scontano un forte senso di delusione e di malinconia.

Servirebbe forse tornare a un concetto caro ai socialisti, quello del primato del merito?
Sì. E mi lasci dire che ho trovato surreale la critica che c’è stata da certi ambienti di sinistra sulla questione del merito. Da due secoli a questa parte, dalla rivoluzione francese in poi, il merito – che è il contrario del privilegio –  è stata la ragione che ha reso forte la classe media, cioè la possibilità per ciascuno di poter migliorare le proprie condizioni sociali. Il fatto che il dibattito sia arrivato proprio dalla sinistra è l’emblema della incapacità di interpretare le esigenze della sua stessa base sociale di riferimento.

Il fenomeno del post populismo, è transitorio oppure ne avremo a che fare nei prossimi anni?
E’ una stagione che durerà a lungo, perché ha a che fare con la grande trasformazione globale in corso, come la competizione sempre più forte tra Stati Uniti e Cina. Io penso che nei prossimi anni le società aperte dell’Occidente, le moderne democrazie liberali, si dovranno confrontare con un concetto chiave che è quello della libertà. La Cina, dove vige un regime autoritario e illiberale, ci ha dimostrato che si può realizzare crescita economica e il progresso sociale anche in assenza di libertà.

Inquietante…
Molto inquietante. E questa è una provocazione, sul piano valoriale, molto più di quanto sia dal punto di vista della competizione economica. Noi abbiamo sempre creduto che la libertà fosse un valore universale non negoziabile. Oggi questo valore per noi fondativo potrebbe essere messo in discussione. La sfida che abbiamo davanti è proprio questa: la stagione del post populismo è appena iniziata e nei prossimi anni le società aperte dell’Occidente dovranno confrontarsi con questo dubbio lacerante: a che serve la libertà se una società può stare meglio anche senza essere libera? Un modello alternativo alle nostre moderne democrazie liberali è più efficace nel dare risposte alle istanze sociali? Un dubbio che ha iniziato ad insinuarsi anche nella vecchia Europa.