“Fine di luglio. Genova è deserta. Tutti partiti nella notte? Ma ecco, qualcosa accade: vecchie persiane, chiuse da mesi, si aprono, stanze, buie da mesi, si illuminano, dimenticate serrature cigolano. È questo il momento in cui Gino, Elisa, Enzo e gli altri prendono coraggio, aprono le porte e scendono in strada. Camminano sui marciapiedi, siedono sulle panchine, parlano da soli ai crocicchi, studiano i semafori, chiamano i gatti. Vestiti nei modi più strani, chi con l’impermeabile, chi col maglione, chi con gli scarponi da montagna, chi con le ciabatte da mare. È un’esplosione, come quella delle lumache dopo la pioggia. La città è loro. Padroni per un giorno. Fine di agosto. Tornano dalle vacanze file di auto piene di sbadigli. In pochi giorni le lumache riscivolano nei buchi. Chi non le ha viste, non le rivedrà più”.

È uscito un libro che permette di scoprire chi sono quei padroni estivi della città altrimenti nascosti. Ha per titolo “L’arte di legare le persone” ed è la storia, stravolta in poema, di quarant’anni di lavoro di un medico in mezzo ai matti. Il suo autore, Paolo Milone, ha lavorato prima in un Centro di Salute Mentale, poi in un reparto ospedaliero di Psichiatria d’urgenza e da qui ha annotato, frammento dopo frammento, la vita sua e altrui sul precipizio della malattia.

Come hai iniziato a lavorare a questo libro, cos’è stato che ti ha fatto decidere di metterti a scrivere?
Io ho avuto un approccio scientifico alla psichiatria, mi sono laureato in medicina e ho scelto di prendere quella specializzazione perché, figlio di due insegnanti di matematica e fisica, mi dicevano che scrivevo dei bei temi e, con l’ingenuità dei ragazzi, pensavo che la psichiatria fosse un poco a metà tra scienze umane e scientifiche. Sui 45 anni ho cominciato a capire che le teorie scientifiche erano insufficienti a spiegare la realtà e ho abbracciato sempre più un approccio narrativo alla realtà che vivevo in reparto. Cominciare a scrivere, poi, è un’altra storia: io ho iniziato ad annotare pezzi, senza avere in mente una fine né una trama. Pezzo dopo pezzo, nel giro di più di dieci anni almeno, è venuto fuori il libro e dopo c’è stato tutto il lavoro di limatura e sintesi che ne ha presi un’altra decina. Quello che ha sbloccato la scrittura è stato un approccio che io chiamo di ironia gentile che mi ha consentito di descrivere con leggerezza anche realtà molto pesanti.

Quali sono le letture, i film, le opere che hanno più influito sulla tua scrittura?
Partiamo da “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, un film del 1976, che ha plasmato l’immaginario sulla malattia mentale. In psichiatria c’è bisogno di storie perché è difficilissimo inquadrare la malattia mentale e le storie aiutano a creare dei riferimenti, delle coordinate per la mente. “Qualcuno volò sul nido del cuculo” ha rappresentato l’immaginario della psichiatria che chiude i manicomi, è una favola, in cui ci sono i buoni e i cattivi: il manicomio è cattivo, la caposala è arcigna, il medico è un po’ sadico e un po’ pazzo e la salvezza sta nella fuga. Come tutte le favole, ha una sua bellezza ma è irrealistica, eppure è questo l’immaginario ancora dominante. L’altro immaginario è quello di “Shining”, un film molto più – come dire – realistico, che fa sperimentare allo spettatore una situazione di derealizzazione nello spazio dell’inverno trascorso dai protagonisti nel grande albergo di montagna, che è simile ai vissuti di una persona che pian piano entra nella schizofrenia. La realtà non è più familiare, si comincia a non capirla, diventa perturbante. Così è successo con il Covid: tutti hanno provato questa sensazione che appartiene al vissuto della schizofrenia, cioè l’uomo non controlla tutto e il mondo non è più familiare. Con il Covid si contiene questa sensazione, ci si dice che prima o poi ne usciremo perché i vaccini funzioneranno, eccetera. Invece nel paziente psichiatrico questa sensazione va avanti e lì comincia l’angoscia: il mondo non è più controllabile. Bisogna trovare delle storie che non siano né “Shining” da cui si scappa né il “Cuculo” che è come un Biancaneve e i sette nani della realtà. C’è bisogno di più storie.

A leggerti è chiaro che le parole non bastano, non arrivano a quello che hai cercato di scrivere, infatti parli di un corpo a corpo continuo con i pazienti, di graffi, calci, pugni, di intestini. Da dove hai pescato allora una forma così musicale, quasi un canto in versi liberi per il tuo romanzo? Da dove viene la tua lingua?
La poesia è un tentativo di uscire dalla disperazione e dalla desolazione. Il tentativo di trovare qualcosa di bello in una realtà che è brutta, il tentativo di illuminare con la parola narrativa una zona buia a cui non si può arrivare con l’osservazione scientifica. I pazienti psichiatrici sono spesso in una situazione mentale preverbale o averbale: o sono come dei bambini piccoli o sono disorganizzati nel linguaggio a causa della malattia, quindi la comunicazione con loro non passa attraverso le parole. Le due strade che io ho provato sono quella del corpo, che secondo me è inevitabile nella psichiatria d’urgenza, e quella della poesia. Sono i pazienti che ti portano alla poesia, sono loro che guidano la lingua.

E infatti ti appelli a tanti personaggi nel libro, li chiami per nome, li incalzi e li solleciti a risponderti, ma chi sono questi tanti a cui ti rivolgi? Sembra che tu ne sia andato a caccia: li hai poi raggiunti?
Per rispondere e non avere però la responsabilità piena e diretta, mi metto dietro al mio personaggio narrante, che sono io ma non sono io. Una caratteristica che c’è in quasi tutti gli psichiatri è il bisogno di comunicazione, il bisogno di indagare, confrontarsi, stanare l’intimità dell’altro. Questo è un bisogno primario del medico. Chi è solo, in partenza, non è esclusivamente il paziente, è anche lo psichiatra e infatti il mio personaggio è affamato di relazioni. E questo è positivo: se non si è così non si può avere con il paziente psichiatrico che un rapporto stereotipato. Se scegli di lavorare in psichiatria d’urgenza e non ne scappi, vuol dire che quel che ti piace è comunicare in situazioni difficili con tutto. Con le formiche, gli alberi, perfino gli extraterrestri. Io dico che noi psichiatri comunichiamo anche con i piedi.

Il tuo è anche un libro militante. Sei contrario all’abolizione totale della contenzione e ti scagli contro le pretese inesperte dell’opinione pubblica che vorrebbe i matti più tranquilli per poter continuare a non curarsi di loro. Argomenti, cercando di ribaltare la retorica contro i vecchi metodi che vengono demonizzati, te la prendi con la psicologia, con i colleghi assenti, con i parenti. Qual è alla fine l’argomento più forte per cui ti sei convinto che contenere – ti cito – è come “il gesso che rinsalda le ossa”, l’immagine più aderente al lavoro della Psichiatria d’Urgenza?
A me è capitato di lavorare in psichiatria d’urgenza in un ospedale a Genova che era totalmente autonomo. Quando c’è stata la riforma sanitaria e si son chiusi i manicomi, questo ospedale ha accettato la costruzione al suo interno di un servizio psichiatrico di diagnosi e cura a patto che ci si occupasse di tutte le situazioni in cui i pazienti fossero agitati e confusi. Per fare un esempio, il mio reparto ha ricoverato i dementi agitati, che altri reparti psichiatrici rifiutano e mandano in neurologia, i tossicomani agitati, che altri reparti rifiutano e mandano in medicina generale, e ancora casi di delirium tremens, che vengono mandati in gastroenterologia, di etilismo acuto, o tutti i casi di amenza, cioè di confusione con agitazione dovuta a qualsiasi insufficienza d’organo. Il discorso è che noi invece li prendevamo tutti e nel nostro reparto abbiamo fatto una psichiatria d’urgenza generalista, quindi siamo stati abituati a contenere molto. Ma la psichiatria, anche d’urgenza, in altre parti d’Italia non è così. Il rischio, dal mio punto di vista, è che, per evitare la violenza, la psichiatria si allontani dai disturbi mentali in cui c’è necessità di un intervento fisico, cioè si allontani dal corpo. Io ho esercitato una psichiatria in cui il corpo era fondamentale, ho contenuto molto e mi sono sporcato le mani. Non è stata, la mia, una scelta ideologico-politica, io sono capitato in quel reparto e sono stato guidato dall’organizzazione sanitaria in cui ho lavorato – che, ripeto, era generalista. Una volta fatta questa esperienza, devo dire che non la ritengo sbagliata. Non dico che sia la migliore, dico solo che non la trovo sbagliata.

Però pensa alla vicenda di Franco Mastrogiovanni, morto perché lasciato legato a un letto di ospedale per 87 ore. Ad oggi, cosa pensi della campagna per l’abolizione della contenzione, “E tu slegalo subito”, aderiresti?
Non conosco questa iniziativa quindi non lo so. Ma ascoltami: la contenzione ha un’importanza in psichiatria pari allo 0,5% e te lo dico con questa sicurezza perché ci penso su da sempre. In medicina e in psichiatria si fanno cose che potenzialmente hanno un’importanza clinica di molto superiore alla contenzione e che sono molto più pericolose. Io ho contenuto molto nella mia vita e non ho mai avuto nessun incidente. Mi è successo tre volte che un parente di un paziente schizofrenico si lamentasse con la direzione sanitaria e io ho scritto una lettera di spiegazioni tale che alla fine le persone sono venute, ci siamo dati la mano e abbiamo pianto insieme. Nessuno ha mai denunciato né me né nessun collega del mio reparto e io non ricordo di una, una sola lesione fisica al paziente dovuta alla contenzione. Non si può morire di contenzione, si può morire solo se si lasciano le persone legate per un tempo incongruo, come le 87 ore di Mastrogiovanni, e senza acqua, cibo, assistenza. Io penso sia più interessante il restante 99,5% del discorso intorno alla malattia mentale, ad esempio cos’è una psicosi? È una malattia o un modo di funzionare della mente? Esiste la follia o 30, 40, 50 malattie mentali ognuna diversa dall’altra e di cui non si parla? Perché le persone hanno così paura dei farmaci psichiatrici? La contenzione rischia di coprire tutte queste domande.

Torniamo a qualcosa che prima hai in qualche modo accennato. Viviamo in un momento in cui scrittori, cantanti, sceneggiatori spesso devono dimostrare di essere impegnati crogiolandosi nelle tragedie altrimenti rischiano l’accusa di vacuità o peggio. Come se una bellezza svincolata da una qualche forma di adesione alla moralità sottolineata ed egemone sia sempre fuori luogo. Ecco, nel tuo libro il soggetto è qualcosa che sicuramente è anche una tragedia, come ti sei mosso per fare in modo di sfuggire a questa sorta di didascalia dominante?
Hai ragione su questo, ma è difficile immaginare una realtà che non sia anche un po’ tragica. La virtù della psichiatria è che per lavorarci bisogna trasformare continuamente le cose brutte in belle. E perché quest’opera di trasformazione non sia retorica bisogna che diventi un’avventura. Ad esempio, il capitolo del libro sul suicidio ho cercato di costruirlo come fosse un giallo. Il mio personaggio si chiede: perché la gente si uccide? E, poiché non lo capisce, chiede al caposala del pronto soccorso di telefonargli tutte le volte che arriva un suicidio fallito e intraprende una specie di indagine. Passo passo, scopre delle cose. Gli capitano dei suicidi falliti che, appena sono in grado di parlare, dicono che non intendevano affatto uccidersi. Com’è possibile? Ecco che la ricerca, la curiosità si trasforma in un’avventura. Un’altra cosa che ho cercato di fare nel libro è restituire il fatto che la psichiatria non ha nulla a che fare con l’apparente ripetitività e noia di un reparto chiuso. Innanzitutto anche il reparto chiuso, come un carcere, può essere un’esperienza umana incredibile. Ma in psichiatria si vanno a fare le visite domiciliari, si entra nelle case e nella vita degli altri e allora io nel libro ho messo i giri infiniti per i vicoli del centro storico. Il punto è che tutto è molto più vivo e vivace di come lo si immagina. E il mio obiettivo era proprio questo: fare in modo che la poesia che la psichiatria contiene emergesse perché la malattia mentale diventi più malleabile, più digeribile, più affrontabile. E poi lasciar emergere la poesia nei pazienti, anche nei più stronzi – passami il termine – e pericolosi. Perché ci sono dei pazienti che ti vogliono fare del male e te lo fanno, ti aggrediscono sia mentalmente che fisicamente. Ma, ecco, trovare della poesia in queste persone è difficile ma è possibile. Secondo me, se non ci fosse qualcosa di bello anche in queste persone, morirebbero, perché qualsiasi cosa del mondo che non ha qualcosa di bello dentro annichilisce e muore.

Un’ultima domanda. Cosa rimane secondo te di una persona quando sta così male come alcuni dei pazienti che descrivi?
Ci sono delle malattie che comportano delle lesioni cerebrali così profonde, come l’Alzheimer per esempio, o malattie come la demenza vascolare, in cui hai letteralmente dei buchi, delle zone in cui le cellule sono morte, e allora in quei casi la persona può anche in qualche modo un po’ perdersi, ma in moltissime malattie mentali la persona resta e tu la senti. All’inizio in psichiatria sembra che sia tutto strano, caotico e imprevedibile, ma dopo poco ci si accorge che la malattia ha delle forme che si ripetono. Per esempio, tutti i paranoici più o meno hanno paura di essere spiati, seguiti e pensano che qualcuno li voglia uccidere ma ogni paranoico è molto diverso dall’altro e la persona, ripeto, tu la senti sempre. O i depressi. Certo che dicono tutti le stesse cose ma se tu li stai davvero a sentire, ogni persona sta dicendo una cosa diversa dall’altra. Ecco, la capacità principale che ha il mio personaggio e che deve avere uno psichiatra è proprio quella di trovare la persona, sotto la malattia. Bisogna essere sensibili ai toni in cui la differenza individuale si esprime: la malattia spesso rovina tanto, talvolta quasi tutto, ma la persona da qualche parte c’è e se tu questa persona la cerchi e cerchi di comunicare con quella persona lì, quella lì e basta, la trovi.