Parla il rabbino capo della Comunità ebraica di Roma
Intervista a Riccardo Di Segni: “Il vaccino contro l’antisemitismo è meno efficace di quello anti-Covid”
La solennità non è tanto nella pur prestigiosa carica che ricopre, ma nella profondità delle sue argomentazioni che viaggiano sul filo di una memoria storica, con tante pagine tragiche, che non va smarrita perché aiuta a costruire un futuro di dialogo e di reciproco ascolto. È questo il segno dell’intervista concessa a Il Riformista dal professor Riccardo Di Segni, dal 2001 Rabbino capo della Comunità ebraica di Roma.
Rav Di Segni, vorrei partire da quanto lei ebbe a dire qualche tempo fa: «L’antisemitismo per molti aspetti assomiglia al virus del Covid, perché è mutante, cambia in continuazione forme: ci sta sempre, ma si presenta in modi differenti, ogni volta è aggressivo e micidiale. L’antisemitismo c’è sempre, ma il modo con cui si presenta è variegato, ha assunto più recentemente le forme di certa intolleranza islamista, oppure oggi ecco i suprematisti, che si danno da fare per diffondere messaggi antisemiti. Ogni momento ha le sue varianti, speriamo di trovare i vaccini…. Lei è anche medico. Le chiedo il vaccino contro l’antisemitismo è ancora da trovare?
È un po’ come il Covid. Nel senso che facciamo i vaccini, funzionano nella maggioranza dei casi, poi, però, compare la variante e speriamo che vada bene anche per essa. Per adesso col Covid ci è andata abbastanza bene da questo punto di vista. Con l’antisemitismo un po’ meno.
Guardando un tragico passato con gli occhi del presente, le chiedo: quanto c’è di ancora attuale nell’affermazione del Presidente emerito Giorgio Napolitano secondo cui l’antisionismo è una forma moderna dell’antisemitismo?
È decisamente una delle sue forme moderne e più pervasive. Quella del Presidente Napolitano fu una dichiarazione coraggiosa, che andava controcorrente rispetto ad una tradizione specificamente di sinistra che non aveva mai fatto pace con il sionismo.
Oggi lei l’antisionismo dove lo vede attecchire maggiormente?
Nei pregiudizi fondamentali che vengono espressi nel momento in cui si critica la politica dello Stato d’Israele. Anche quando si dice: io non ce l’ho con Israele ma ce l’ho con il Governo, cosa in sé perfettamente legittima se non fosse che chi dice una cosa del genere non ha mai accettato nessun Governo israeliano. C’è una ipertrofia del giudizio nei confronti dello Stato d’Israele, uno sbilanciamento pregiudiziale per cui ci sono i Buoni e i Cattivi, e Israele imperversa sempre tra quest’ultimi. C’è una sorta di assenza di giudizio equilibrato.
A proposito di questo. Oggi si tende, spesso strumentalmente ma a volta senza secondi fini, a identificare totalmente la diaspora ebraica, in particolare quella europea, con Israele. Come fossero un tutt’uno. Non ritiene che questa identificazione assoluta finisca per creare problemi sia alla diaspora che a Israele?
La realtà ebraica è estremamente complessa. E non può essere ridotta a semplificazioni. Per molti ebrei, Israele rappresenta una speranza, una rivoluzione storica ed anche un’ “assicurazione sulla vita”. Ma per molti altri c’è un rapporto dinamico e controverso. È una situazione molto variegata.
Tutto ciò chiama in causa l’importanza del dialogo. Dialogo come conoscenza dell’altro da sé e non soltanto come tolleranza. Chiedo a lei che è uno dei protagonisti di questo sforzo di dialogo interreligioso: dialogo, inclusione, rispetto delle diversità, sono speranze fondate o solo una illusione? Il che ci porta a trarre anche un bilancio dell’anno che sta volgendo al termine.
Il 2021 è un anno che è stato meno peggio del 2020 ma comunque un anno in cui le normali attività sono state ridotte. Non è un anno per il quale si possono fare grandi bilanci. Le cose sono andate avanti, anche dal punto di vista del dialogo. Il dialogo, è bene tenerlo sempre presente, serve a confrontare persone diverse e punti di vista differenti. Quindi è inevitabile che quando si dialoga si litighi pure o si discuta a voce alta. Il dialogo serve anche per trovare le soluzioni alle crisi, perché se non ci si parlasse questa strada sarebbe preclusa. Il dialogo c’è, avanza come sempre tra mille difficoltà, ma se uno si volta dietro e vede com’era la situazione nei decenni precedenti, per non parlare dei secoli precedenti, i progressi sono indiscutibili. Stiamo parlando di realtà che hanno storie millenarie e questo impone di avere una prospettiva un pochettino diluita nel tempo.
Si dice: senza memoria non c’è futuro. Ma quelli che stiamo vivendo, visti dal suo osservatorio, non sono i tempi dell’oblio?
C’è una cosa preoccupante. Confrontandosi con i più giovani vediamo che tutta una serie di elementi storici che hanno formato le coscienze delle nostre generazioni per quello che era successo – non parlo di eventi ebraici ma di eventi in generale – sono molto sfumati, non hanno l’impatto che hanno avuto per quelli che quegli eventi l’hanno vissuti rispetto a quelli che l’hanno appena sentiti raccontare dai loro genitori. C’è una sorta di crisi di memoria, peraltro inevitabile per il passare del tempo, però dobbiamo fare i conti con questa realtà. Torno a ripetere una cosa di cui sono estremamente convinto e che dà conto dell’importanza della Giornata della memoria: esiste un imperativo che è quello di ricordare per capire come avvengono certe tragedie, ma anche per prevenire che queste tragedie si ripetano. Di fronte a questo imperativo c’è un impegno a fare, questo impegno purtroppo molto spesso scivola nella retorica, nella banalizzazione, nell’overdosaggio dei concetti e quindi può creare reazioni di rigetto o di stanchezza. È un’operazione difficile, ma questi rischi non ci devono esentare dal dovere di ricordare.
Nonostante gli sforzi per favorire il dialogo, nel mondo le religioni vengono ancora utilizzate, spesso, per giustificare o legittimare guerre, pulizie etniche, crimini efferati. Si può risolvere tutto dicendo semplicemente: non è vero, quelli che lo fanno non hanno niente a che vedere con le fedi. Non è una risposta troppo semplicistica e consolatoria?
Molto spesso è retorica. Ed è fumo. Perché nasconde e interpreta la verità storica o i dati storici in maniera benevola. Il giudizio deve essere critico, però è assolutamente necessario che le differenti religioni si formino, crescano, si educhino al fatto che appartenere ad una fede non significa dovere distruggere gli altri e trovare nella fede la giustificazione per la violenza e per gli orrori del passato. In passato queste cose sono state giustificate e sostenute anche, seppur non esclusivamente, da alcune religioni. Il fatto che oggi ci sia una sorta di ripensamento sul modo di vivere la propria fede, è assolutamente importante. Non deve diventare retorica e cancellare, ma questo percorso di crescita va sostenuto e approfondito.
Lei è il Rabbino capo di una delle più antiche comunità ebraiche italiane ed europee: quella di Roma. L’antica Sinagoga di Roma, oltre che luogo di culto è anche un luogo della memoria, nel senso positivo e negativo. La memoria di un vile attentato terroristico, quello del 9 ottobre del 1982 che costò la vita a un bimbo ebreo italiano di due anni, Stefano Gaj Tachè, ma è anche stata il luogo di importanti visite di Capi di Stato e di Pontefici. Da questo punto di vista, cosa rappresenta ancor oggi quell’antica Sinagoga, non soltanto per la comunità ebraica ma per l’intera città di Roma?
Le posso fare un esempio a proposito di queste visite. La Sinagoga di Roma venne edificata in soli 3 anni, oggi ce ne vorrebbero 20, nel 1904 e inaugurata a fine luglio. Il giorno prima dell’inaugurazione, il Re d’Italia Vittorio Emanuele III venne, un pochino alla chetichella alle 8 di mattina, a visitare questo nuovo edificio. E in ricordo di quel fatto venne apposta una grossa lapide che sta all’interno della Sinagoga. Lo stesso re, diciassette anni dopo, esattamente un secolo fa, nel 1921, ritornò nella Sinagoga a inaugurare la lapide che sta fuori di essa, sul Lungotevere, che ricorda gli ebrei romani caduti nella Prima guerra mondiale, una lista molto grande. Fu una cerimonia molto solenne, venne il Re con Diaz, una cosa molto pomposa. Diciassette anni dopo lo stesso Re, Vittorio Emanuele III, è quello che firma le leggi razziali. Ed è molto interessante questa storia perché la Sinagoga di Roma è un monumento testimone della variabilità umana.
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