Sul ritiro dall’Afghanistan l’esercito Usa smentisce Biden. Davanti alla commissione Forze armate del Senato, il capo dello stato maggiore congiunto Mark Milley e il capo del comando centrale Kenneth McKenzie ieri hanno affermato di aver consigliato al presidente – senza successo – di mantenere 2500-3500 soldati per garantire la stabilità del governo e dell’esercito di Kabul. Biden aveva sostenuto di non aver mai ricevuto alcun suggerimento in questo senso dai suoi consiglieri militari. Del disastroso addio all’Afghanistan il Riformista ha parlato con Roberta Pinotti, già ministra della Difesa nei Governi Renzi e Gentiloni, oggi presidente della Commissione difesa del Senato: «Un errore ritirarsi in quel modo, la difesa comune europea necessaria accanto alla Nato», ci ha detto.

Fuga, tradimento, resa dell’Occidente. In molti si sono cimentati nel definire gli accadimenti in Afghanistan. Quel è la sua chiave di lettura?
È giusto che le missioni militari abbiano un termine, quindi il problema non è stata la decisione del decretare la fine, ma come si è chiusa la missione. Dopo 20 anni di impegno della Nato in Afghanistan, con quello che hanno comportato anche in termini di vite umane, civili afghani, militari di tutti i contingenti, 54 i nostri caduti, oltre che risorse ingenti riversate sul paese, rimarrà un’onta per l’Occidente vedere l’aeroporto di Kabul assediato in cerca disperata di salvezza, con addirittura afghani che per scappare si sono attaccati ai carrelli dell’aereo o madri che lanciavano i loro figli oltre il blocco per sperare di metterli in salvo. Sarà difficile da dimenticare. L’obiettivo dichiarato della missione in Afghanistan era colpire quello che era diventato il santuario del terrorismo di Al Qaeda, ma avevamo anche suscitato le speranze della popolazione afghana, avviando un processo democratico con le elezioni e promettendo sostegno per l’istitution building. A mio giudizio, gli Stati Uniti hanno commesso un errore nell’avviare gli accordi di Doha solo con i Talebani, escludendo dalla fase iniziale il governo afghano, debole e corrotto ma pur sempre legittimo. Biden ha dichiarato che gli obiettivi sono stati raggiunti in quanto i talebani si sono impegnati a non trasformare l’Afghanistan di nuovo in una base terroristica, ma questa è una promessa assai debole, come ha dimostrato il devastante attentato all’aeroporto di Kabul fatto dall’Isis. Purtroppo, al di là della stessa volontà dei Talebani, il rischio che un paese così vasto e difficilmente controllabile ridiventi un ricettacolo di terrorismo è concreto. Ne è una prova il fatto che sono già arrivate alcune migliaia di foreign fighters. Questo ritiro è certamente una brutta pagina per l’Occidente.

L’Afghanistan è stato definito, storicamente, “il cimitero degli imperi”. È anche il “cimitero della Nato?
La Nato è un’alleanza militare di paesi che si riconoscono in determinati valori, ma è chiaro che nelle alleanze militari il peso di ogni azionista è proporzionato ai suoi investimenti e gli Usa sono di gran lunga l’azionista di maggioranza, che ne orienta le scelte principali. La quasi totalità dei paesi europei ne fanno parte, ma ciascuna nazione parla alla Nato singolarmente, non con una visione condivisa. Un’Unione europea più coesa e strutturata anche sui temi della politica estera e di difesa consentirebbe, nella lealtà che deve cementare l’alleanza, di essere interlocutori più forti e decisivi. La Nato sta ripensando il proprio orizzonte strategico, in previsione del 2030. È chiaro che una vicenda come quella afghana deve indurre a riflettere. Non credo che la Nato abbia trovato nell’Afghanistan il suo cimitero, ma deve certamente rivitalizzarsi, immaginando che nelle sue sfide non può esserci solo l’Est, ma devono comprendere il Mediterraneo, il Sud, oltre che l’attenzione ai nuovi equilibri geostrategici , al terrorismo e alle minacce cyber.

«Noi non abbiamo bisogno della Nato. Noi abbiamo bisogno dell’Unione europea della difesa». Così l’ambasciatore Sergio Romano in un’intervista a questo giornale. Condivide?
Negli anni Cinquanta De Gasperi, Schuman e Adenauer avevano lavorato con determinazione sui temi della Ced, tanto che esistevano già progetti per mettere in comune parte degli eserciti, l’esercito europeo, e costruire un sistema di difesa integrato. Poi saltò tutto perché la Ced, la Comunità europea di difesa, non venne ratificata dal Parlamento francese. Dopo quegli anni, il tema è rimasto molto più sotto traccia e si è ricominciato a parlarne più timidamente con la Politica europea di sicurezza e difesa (Pesd) e con la Politica estera di sicurezza comune (Pesc), negli anni Novanta. La timidezza dell’Europa su questi temi è evidenziata anche dal fatto che, ancora oggi, sulla base dei trattati di Lisbona, la riunione formale per dare vita a una missione militare europea è quella dei ministri degli Esteri; i ministri della Difesa svolgono solo riunioni informali. Ma negli ultimi anni qualcosa ha cominciato a muoversi, anche in conseguenza della Brexit, visto che la Gran Bretagna è sempre stata la più perplessa sul processo di unione della difesa. Nel 2017 sulla spinta di Italia, Francia, Germania e Spagna, che in quel momento avevano ‘casualmente’ tutti ministri donna, è partita la prima cooperazione rafforzata, prevista dai trattati di Lisbona. Ricordo che la proposi nel corso di un pranzo informale che precedeva la parata militare del 14 luglio, dopo l’elezione di Macron e il suo discorso sull’Europa, a tavola con Von der Leyen, allora ministra della Difesa tedesca, con la ministra francese Florence Parly e con la collega spagnola Dolores de Cospedal. Da lì partì una lettera agli altri Stati, che aderirono quasi in toto e si avviarono una serie di progetti sui quali si sta lavorando. Venne poi istituito un fondo europeo per la difesa, per incentivare innovazione e processi comuni. Le cifre sono ancora contenute, ma il segnale dell’apertura di un capitolo di bilancio su questo tema è stato importante. Quello che comunque era rimasto solo un tema per addetti ai lavori, con la vicenda afghana diventa tema politico primario, che ha risonanza nell’opinione pubblica. Per questo io spero che questa volta la direzione di una difesa comune sia sostenuta con forza. Il discorso all’Unione di Ursula von der Leyen rafforza questa mia convinzione. Tutto questo per dire che credo fortemente in una difesa europea alla quale ho dato e cerco di continuare a dare il mio contributo, ma non la vedo in contrasto con la presenza della Nato. È anzi un modo per rafforzare la Nato con un punto di vista europeo sostenuto da capacità militari.

In discontinuità con “American First” di Trump, Biden aveva coniato lo slogan “America is back”, in una chiave multilaterale. Poi è venuto il ritiro dall’Afghanistan…
Tutti noi fautori del multilateralismo abbiamo salutato con sollievo e favore l’elezione di Biden, per archiviare la stagione del sovranismo isolazionista di Trump, a nostro giudizio negativo sia per gli Usa che per gli equilibri globali. I primi segnali venuti dalla nuova leadership americana, compresa l’attenzione all’Europa, facevano ben sperare. Le modalità della decisione del ritiro dall’Afghanistan, che non hanno tenuto in adeguato conto le riserve espresse, ad esempio, da alleati importanti come la Germania e l’Italia, così come i contenuti del discorso con cui Biden ha rivendicato il ritiro, sono purtroppo stati una doccia fredda. C’è comunque una linea di continuità, che da Obama passa per Trump e Biden, sul messaggio che gli Usa mandano a noi europei: le sfide del mondo stanno diventando più ampie, gli Usa dovranno concentrarsi su altri quadranti, in primis l’indo pacifico, non possono più farsi carico di tutto. La conseguenza è che sul quadrante euro atlantico si aspettano un maggiore protagonismo europeo. È questo il ragionamento sotteso anche alla richiesta ai paesi Nato di aumentare le spese per la difesa, portandole almeno al 2% del Pil. E qui ci colleghiamo a quanto ho già detto. È chiaro che la costruzione di una difesa europea può metterci in grado di affrontare le nuove sfide, perché l’Ue diventerebbe più autonoma e capace di intervenire.

Nonostante la macchina repressiva dei Talebani sia in piena azione, soprattutto contro le donne, l’Afghanistan è sparito, o quasi, dai radar della politica e dei media. Non è questo il vero tradimento?
Non sono d’accordo con questo giudizio. Solo per aggiornare sulle ultime iniziative, in Senato, su mia proposta si è costituito un intergruppo di solidarietà con le donne afghane che si è già riunito alla presenza della viceministra Sereni, che ha la delega sulla questione, e che si pone proprio l’obiettivo di non far cadere politicamente l’attenzione sul tema. Sempre in Senato sulla questione è attiva anche la Commissione Diritti Umani. Il ministro Di Maio all’Onu ha promosso un’iniziativa sui diritti delle donne afghane. C’è una grande attenzione anche nella società civile, con manifestazioni di solidarietà sia a Milano che a Roma. Non è veritiero ed è anche ingeneroso parlare di tradimento. Certo, le condizioni sono difficili e bisognerà trovare strade nuove e diverse per intervenire. Come Partito Democratico, già prima del ritiro delle truppe occidentali, avevamo presentato una mozione e svolto un question time parlamentare proprio affinché nella trattativa su Doha il tema dei diritti delle donne fosse salvaguardato e a seguito di questo avevamo svolto un incontro da remoto con parlamentari ed esponenti della società civile afghane per esprimere la nostra piena disponibilità al sostegno. Purtroppo poi la situazione è precipitata e i contatti ora sono molto complicati. Dobbiamo continuare a sostenere le donne senza compromettere la loro sicurezza. Noi continueremo a supportarle in tutti i modi. La sensibilità dell’opinione pubblica è ora maggiore, questo lo sanno anche i Talebani.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.