Intervista a Sabino Cassese: “Altro che divisione, siamo alla confusione dei poteri”

Torna al centro del dibattito il tema referendum. Venerdì 8 ottobre l’Associazione Luca Coscioni consegnerà in Cassazione le firme raccolte per la legalizzazione dell’eutanasia: oltre un milione – 640.621 cartacee raccolte ai tavoli e 372.000 online tramite firma digitale – . A ciò si aggiunge che da pochi giorni è possibile firmare online anche per il referendum giustizia giusta promosso da Lega e Partito Radicale. Mentre i promotori del referendum per la depenalizzazione della cannabis, dopo aver raccolto oltre 600 mila firme soltanto online, hanno annunciato che da ora in avanti la campagna si sposta nelle piazze. Di questa ondata referendaria ne parliamo con il giurista Sabino Cassese.

Professor Cassese, come giudica l’avvento della cosiddetta “Spid Democracy”?
Premetto che ritengo la democrazia rappresentativa l’unica forma realizzabile di democrazia nelle dimensioni nazionali e statali. Che forme di democrazia diretta, come i referendum abrogativi e confermativi, sono utili quali integrazioni della democrazia che chiamiamo rappresentativa. Che l’abuso dei referendum, specialmente di quelli manipolativi, come dimostrano le esperienze svizzere e californiane, si presta allo sfruttamento lobbistico, di minoranza. Che, quindi, non bisogna utilizzare il referendum in modo eccessivo e che bisogna far ricorso ad essi quando vi sono chiare alternative, come democrazia o Repubblica, divorzio o stabilità del matrimonio, aborto o tutela della vita. Detto tutto questo, penso che quella che lei chiama “Spid Democracy” sia un fatto positivo. Non ci si può contrapporre alla semplificazione, quando i mezzi tecnici lo consentono. Non possiamo riproporre forme di luddismo.

In questi giorni, fiumi di parole da parte di giuristi, politici, (ex) magistrati sui rischi dei referendum online. Tutti alla ricerca di un equilibrio, per il timore che la democrazia digitale possa togliere potere a quella rappresentativa. Le stesse voci però non si sono fatte sentire negli anni precedenti, quando invece portare avanti un referendum era impresa quasi impossibile. Sono intervenuti i soliti radicali che, non trovando sponde nella politica e nella giustizia italiane, si sono rivolti al Comitato dei diritti umani dell’Onu che ha condannato l’Italia nel 2019 perché il nostro Paese ha violato il diritto dei cittadini a partecipare alla vita politica attraverso i referendum e le leggi di iniziativa popolare: assenza di autenticatori, inadempienze di molti Comuni, mancanza di pubblica informazione. Condivide questa analisi per cui tutti si preoccupano adesso, ma prima invece hanno ignorato le difficoltà di portare avanti un referendum?
Contrariamente a quello che molti pensano, la democrazia è un sistema politico estremamente complesso, di cui solo una parte è costituita dalla vera e propria decisione popolare. Della democrazia fa parte il dibattito pubblico; e tutto ciò che consente di arricchire lo spazio pubblico arricchisce la democrazia.

Francesco Clementi in un articolo del 21 settembre sul Sole 24 Ore propone alcuni correttivi affinché «l’onda di piena popolare non squilibri le nostre istituzioni». Uno di questi è: anticipare il giudizio della Corte Costituzionale, «bloccando contestualmente la raccolta delle firme digitali prima che il loro numero cresca al punto da esercitare una pressione indebita sulla Corte (ad esempio a 100 mila)». È d’accordo?
È una preoccupazione ragionevole, principalmente per evitare un impegno nella raccolta delle firme che poi si riveli inutile, mentre non credo che l’aver raccolto un alto numero di firme costituisca una pressione sulla Corte costituzionale.

Le proposte di Stefano Ceccanti invece sono: «Sarebbe necessario alzare la soglia minima da 500 a 800 mila. Contemporaneamente, però, bisogna rivedere il quorum, renderlo mobile. L’ideale sarebbe fissarlo al 50 per cento più 1 di coloro che hanno votato alle ultime elezioni politiche, in modo tale che tenga conto anche dell’astensionismo». Che ne pensa?
La popolazione italiana è aumentata di circa 10 milioni dal momento nel quale fu approvata la Costituzione. Quindi, certamente le proporzioni sono cambiate. Ora incomincia a diminuire e Blangiardo, un illustre demografo presidente dell’Istat, prevede che tra qualche decennio potremo esser solo 30 milioni. Inoltre, abbiamo capito che è difficile modificare la nostra Costituzione: basta vedere quante volte è stata modificata la costituzione tedesca nello stesso periodo di tempo della storia repubblicana italiana. Sono scettico sulla possibilità di fare una modifica di quel tipo.

Giovanni Guzzetta, dalle pagine del Riformista, pone l’attenzione su un altro aspetto importante: «Molto più serio è un discorso di rivisitazione complessiva delle procedure di iniziativa popolare. Perché tutti quegli ostacoli per promuovere un referendum? Perché i referendum non possono essere presentati nell’anno antecedente le elezioni o votati in caso di scioglimento? Perché il Parlamento non si pronuncia mai sulle leggi di iniziativa popolare, pur previste dalla Costituzione?». Condivide?
Condivido il giudizio sulla sordità delle assemblee parlamentari rispetto alle leggi di iniziativa popolare ed anche rispetto alle proposte referendarie, che potrebbero trovare immediatamente echi nelle aule parlamentari.

Alfonso Celotto, in un Talk for Justice organizzato da questo giornale, ha detto: «Diceva Carlo Arturo Jemolo: “La Corte Costituzionale legge il diritto con gli occhiali della politica”. Cioè: la Corte Costituzionale non è un organo politico ma neanche un giudice». Avendo perso i partiti, ma anche i sindacati, l’esclusiva sui referendum con l’avvento della Spid Democracy, resterà loro solo la possibilità di fare pressioni sulla Consulta? E quest’ultima sarà impermeabile?
Se debbo giudicare dalla mia personale esperienza e dall’esame che ho fatto della giurisprudenza della Corte costituzionale in tanti altri periodi della storia repubblicana, debbo concludere che la Corte costituzionale ha letto il diritto con gli occhiali della costituzione, non della politica. Ha tutt’al più tentato aggiornamenti della Costituzione ai nuovi contesti, ad esempio a quello europeo.

Condivide la preoccupazione di chi sostiene che a colpi di decreti legge, e di voti di fiducia, il Parlamento è stato privato della sua principale funzione, che è quella di legiferare, e di legiferare particolarmente in materia di diritti delle persone? Pensiamo al green pass, e alle riforme del processo civile e penale.
Negli ultimi due anni l’attività legislativa ha fatto perno sui governi. Il numero dei decreti legge ha oscillato tra tre e quattro al mese. Inoltre l’iniziativa governativa delle leggi fa la parte del leone. Ma tutto questo ha consolidato una tendenza che esisteva da tempo e che in parte è stata osservata fin dall’inizio della storia dei parlamenti: basta leggere Bagehot per rendersene conto. Penso che siamo in una situazione in cui alla separazione dei poteri si sostituisce una condivisione o confusione dei poteri. Al governo legislatore si accompagna il Parlamento amministratore; la magistratura non svolge soltanto attività giudiziaria, ma anche amministrativa e legislativa. Si riproduce un fenomeno che era noto nella costituzione dell’impero romano, come osservato dagli ultimi studi sulla storia di Roma.