La scissione dei 5 stelle
Intervista a Sabino Cassese: “Così Luigi Di Maio è diventato uno statista”
La scissione nei 5Stelle e le prospettive del “campo largo” del centrosinistra. E ancora: la “lezione” del voto francese, la sempre più eterea prospettiva di una riforma della legge elettorale, una valutazione super partes dei risultati delle amministrative. I temi di caldi nel dibattito politico sono al centro dell’intervista al professor Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale e professore emerito della Scuola Normale Superiore di Pisa, nonché professore di “Global governance” al “Master of Public Affairs” dell’”Institut d’Etudes Politiques” di Parigi.
Della sua vasta produzione saggistica, tradotta in più lingue, ricordiamo i più recenti Il governo dei giudici (Feltrinelli, 2022); Una volta il futuro era migliore (I Solferini, 2021); Gli intellettuali (il Mulino, 2021); Il buongoverno. L’età dei doveri (Mondadori, 2020); La svolta. Dialoghi sulla politica che cambia (il Mulino, 2019); Dentro la Corte. Diario di un giudice costituzionale (Il Mulino, 2015).
Professor Cassese, dopo la rottura consumatasi nel Movimento 5Stelle, cosa resta di quel “campo largo” del centrosinistra più volte evocato dal segretario del Pd, Enrico Letta?
Resta soltanto un campo meno largo o forse meno sicuro, considerata la volatilità dell’elettorato. Resta, principalmente, la tendenza del corpo politico italiano a cercare, mediante scissioni, l’infinitamente piccolo. Questo per due motivi. Da un lato, la volatilità dell’elettorato, appena ricordata. Dall’altro, la debolezza programmatica delle forze politiche. L’uno e l’altro producono lo scarso radicamento sociale di tutte le forze politiche, con l’oscillazione che registriamo in termini di seguito politico e di risultati elettorali.
Per restare sui 5Stelle. C’è chi ha detto e scritto di un insanabile scontro di potere tra Conte e Di Maio. Ora, è vero che in politica il personalismo conta, forse anche troppo, ma è sufficiente a spiegare l’accaduto o c’è dell’altro?
C’è dell’altro. Come sappiamo dalla storia dell’origine dei partiti politici, i movimenti sociali si organizzano lentamente in associazioni e queste si danno un’organizzazione che chiamiamo partito. Il Movimento 5 stelle ha rifiutato questo processo di sviluppo e ne ha pagato il costo. L’unica persona che ha colto l’importanza della lezione della storia è l’attuale ministro degli Esteri, che si è reso conto delle necessità di istituzionalizzare una forza politica che altrimenti sarebbe rimasta allo stato magmatico, per farla diventare, da movimento sociale, associazione, come richiesto nell’articolo 49 della costituzione, secondo cui tutti i cittadini possono liberamente associarsi in partiti per concorrere con metodo democratico alla determinazione della politica nazionale. Un percorso inverso ha preso l’ex presidente del Consiglio dei ministri che ha scelto la strada movimentista. Per un lettore della famosa opera di Thomas Mann Considerazioni di un impolitico è interessante osservare la “coerenza” del profilo dei due uomini politici. Da un lato, il leader nato dalla politica che diventa statista; dall’altro lo studioso professionista, estraneo alla politica, passato nell’azione di governo, che diventa movimentista.
Nella conferenza stampa in cui ha annunciato l’uscita dal Movimento e la costruzione di un nuovo soggetto politico-parlamentare, Insieme per il futuro, Di Maio ha parlato esclusivamente, o quasi, di politica internazionale. Ora, è vero che è il Ministro degli Esteri, ma da leader di una nascitura formazione politica? Anche questo evento politico interno è frutto della guerra?
A me sembra un ulteriore segno della serietà del processo che ha condotto il ministro degli Esteri verso lo Stato. Infatti, il problema internazionale è quello veramente scottante oggi, mentre quelli nazionali passano in secondo piano. Ed è quello nel quale, per l’esperienza compiuta, egli ha maggiore esperienza e può pronunciarsi.
C’è una “lezione francese” che ci viene dalle recenti elezioni per il rinnovo dell’Assemblea nazionale transalpina?
Non c’è una sola lezione francese, ma ce ne sono molte. In primo luogo, le formule elettorali adottate in Francia consentono di dare maggiore continuità al capo dell’esecutivo. In secondo luogo, il bipolarismo al vertice, tra presidente e assemblea nazionale, consente di temperare i poteri concentrati nelle mani del presidente con una maggioranza parlamentare che costringe il presidente a venire a patti con l’assemblea nazionale, dando luogo a quello che gli americani chiamano “divided government” e che una volta si chiamava in Francia “coabitazione”. Un fenomeno di questo tipo negli Stati Uniti si è verificato molte volte, negli ultimi cinquant’anni, e dimostra che il sistema presidenziale, con la concentrazione dei poteri che esso comporta, può essere temperato. Una ulteriore lezione è quella relativa alla tendenza antagonistica prodotta dal presidenzialismo in società attraversate da forti “cleavages”.
Manca meno di un anno alle elezioni legislative. Con quale legge elettorale gli italiani saranno chiamati a votare?
Non ho doti da indovino, ma posso pensare che, dato il poco tempo disponibile da qui alle elezioni, si vada a votare con la legge Rosato, quella vigente.
Come valuta la tornata elettorale comunale appena svolta?
Il dato sicuro è il progressivo decremento dell’affluenza alle urne: 54% al primo turno, 42% al secondo turno con punte estreme del Molise al 21%, della Liguria al 34%, del Piemonte al 38%, del Lazio al 40%. È un problema, questo dell’affluenza, che dovrebbe essere affrontato dalle forze politiche la cui base sociale diventa sempre più esile. Di questo passo, si corre il rischio di avere forze politiche più formate dall’alto che dal basso. Quanto ai movimenti tra la destra e la sinistra dell’elettorato non penso che si debba dare troppa importanza ad essi, perché gli enti locali sono dotati di autonomia politica; possono quindi darsi orientamenti politici diversi da quelli del centro. Cercare nei mutamenti dell’elettorato locale i segni premonitori di cambiamenti centrali è non solo storicamente, ma anche teoricamente sbagliato.
E come giudica questo affollarsi di incontri internazionali, che impegnano sempre più il nostro presidente del Consiglio dei ministri?
Bisogna rendersi conto che ormai tutti i problemi nazionali sono anche sovranazionali e globali. Quindi, è importante che nel governo vi siano persone che conoscano e che siano conosciute, se possibile per precedenti positive esperienze. In secondo luogo, questa è la dimostrazione che sbagliavano quelli che ritenevano finita la fase della globalizzazione. In realtà la globalizzazione è una tendenza di lungo periodo, cominciata parecchi decenni fa, che continuerà molto a lungo.
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