Parla il regista
Intervista a Sergio Rubini: “Dalla polvere alla ribalta: i De Filippo raccontano l’Italia”
Dopo essere stato presentato come evento speciale alla 16esima Festa del Cinema di Roma, uscirà nelle sale il 13, 14 e 15 dicembre 2021 il film sul trio magico del teatro napoletano e italiano: I Fratelli De Filippo di Sergio Rubini. Fino a oggi nessun regista aveva osato indagare i “motivi”, per citare lo stesso Rubini, dell’arte degli attori e drammaturghi Eduardo, Titina e Peppino, le origini del loro successo, il desiderio di rivalsa su un padre, Eduardo Scarpetta, che non li ha mai riconosciuti. Con un vero e proprio biopic, che Rubini si augura essere solo il primo capitolo di una saga, partiamo dall’infanzia dei tre fino ad arrivare al momento in cui, pur calcando lo stesso palcoscenico, lo “zio” Scarpetta muore lasciandoli senza un soldo, costringendoli artisticamente ed economicamente ad affrancarsi da quella farsa teatrale e famigliare. Incontriamo Sergio Rubini che ci fa strada in questa “storia di una ferita familiare che si trasforma in arte” e ci presenta gli antesignani del realismo, di un teatro che racconta la realtà e gli uomini con amara ironia invece di prendersi in giro.
Perché una storia di riscatto come questa non era mai stata portata sul grande schermo e perché era importante farla conoscere al pubblico, specialmente in questo momento?
Non è stata raccontata perché questo è un paese che dimentica, in cui a un certo punto è andata addirittura di moda la rottamazione. Rottamando il passato però, si vive in un continuo presente perché senza passato non c’è futuro. Racconto questa storia adesso perché sette anni fa io avevo a cuore questa storia e quando l’ho raccontata al mio produttore Agostino Saccà e a sua figlia Grazia, Agostino mi ha detto di avere la pelle d’oca. E sulla pelle d’oca, ma soprattutto sulla pelle di Agostino, perché è stato un film produttivamente molto grosso, abbiamo montato questo film oggi e oggi più che mai è importante perché la lezione di Eduardo è attuale: in Napoli milionaria lui si guarda intorno e vede questa Napoli martoriata dopo la guerra e per noi, la pandemia è come una guerra. Questa è una storia di speranza in cui tre ragazzi che partono da una condizione di svantaggio riescono a ribaltare il loro destino e ad affermarsi. Speriamo che sia così anche per il nostro paese e in generale per il mondo, che ci sia alla fine di questa avventura, la luce.
Quanto è italiana questa storia e quanto invece è universale?
Questa storia è profondamente italiana, questa è una famiglia italiana, è metafora del nostro paese che spesso parte da una condizione di svantaggio, dalle retrovie ma che con il talento e la tenacia riesce poi invece a ribaltare Il proprio destino. È anche universale perché parla dell’animo umano, di come siamo, delle famiglie, della psicologia di ognuno di noi e anche della difficoltà di relazionarci. La famiglia ti protegge ma è anche luogo di profonde lacerazioni.
Tra stizza e orgoglio, nel film, Scarpetta dice al figlio Eduardo: “Ti sei rubato l’arte”. Questa frase è stata detta davvero?
Questa battuta ce la siamo inventata io e gli sceneggiatori Carla Cavalluzzi e Angelo Pasquini, però di fatto è andata così. Scarpetta aveva organizzato tutto mentre era in vita, diciamo così un grande bluff. Aveva promesso a sua nipote Luisa, la mamma dei De Filippo, di pensare ai suoi figli e al loro futuro ma una volta morto si scoprì che non aveva lasciato loro alcunché. Il programma di Scarpetta era tutto puntato sul suo erede numero uno, Vincenzino, ma gli era sfuggito un dettaglio, che il talento non lo si può lasciare scritto su un testamento, è qualcosa che ha che fare col sangue. Questo errore di programmazione è ciò che poi in qualche modo ha fregato Scarpetta, perché i De Filippo, che portavano questo cognome-emblema della loro vergogna, formando il trio, in un arco di tempo brevissimo sono riusciti non solo a far diventare quel cognome il loro orgoglio ma anche a far dimenticare, seppellire e obliare totalmente il nome di Scarpetta e in qualche modo anche il suo teatro.
Il film pone l’accento non solo sull’inevitabile Eduardo ma anche sul carisma e la personalità di Titina. Era una donna che ha precorso i tempi?
Titina è un personaggio profondissimo, è una proto-femminista. Pur non avendo il dono di ciò che in quell’epoca era ritenuta la bellezza visto che al tempo andavano le soubrette e le maggiorate, Titina è riuscita a imporsi con la sua femminilità più consueta, quella della signora della porta accanto. Ha fatto un percorso insolito perché si è messa con un ragazzo molto bello più giovane di lei, quello che oggi chiameremmo il toy boy ed è stata anche l’attrice più importante della compagnia. Pietro Carloni, il marito, prendeva un decimo della paga di Titina per cui chi portava avanti veramente la famiglia, anche dal punto di vista economico era lei. Tutti questi sono elementi di una spregiudicatezza, per l’epoca che raccontiamo, assoluta. Titina viene spesso raccontata come collante tra questi due fratelli, lo era ma non lo era. Considerate che, dopo il 1931, nella storia che io mi auguro di poter continuare a raccontare in un sequel di questo film, chi abbandona per la prima volta il trio dopo 13 anni è proprio Titina. Pertanto è stata una donna spigolosa, problematica, complessa, piena di ironia ma sapeva battere i pugni e il fatto di essere donna non significava essere disposta a stare agli ordini dei suoi due fratelli.
Si può essere degli attori e drammaturghi completi oggi senza conoscere l’eredità dei De Filippo?
Sì, probabilmente. Salgari aveva scritto dell’India e dell’Africa senza averle mai visitate. Kafka aveva scritto America senza esserci mai stato ma erano dei geni quindi diciamo che io consiglierei alle persone più normali come lo sono io e a tutti quanti noi di non affidarsi alla propria genialità ma cercare invece di studiare e di fare un percorso più naturale.
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