"Una vicenda del genere ti demolisce dentro"
Intervista a Stefano Esposito, vittima di un’inchiesta da incubo: “Volevano associarmi alla ‘ndrangheta, ma non nutro vendetta”
Stefano Esposito, ex parlamentare Pd, nel 2017 finisce coinvolto in un’inchiesta che si trasforma in un incubo.
Raccontaci la tua storia.
«Parto dalle accuse, che avrei volentieri discusso in questi lunghi sei anni e mezzo se ne avessi avuto modo. La vicenda la scopro nel novembre 2017, quando un mio coimputato, Enzo Lavolta, all’epoca assessore all’ambiente nella giunta Fassino, mi chiama chiedendomi chi fosse l’avvocato “tizio” che avrei nominato nel procedimento penale in cui entrambi siamo coinvolti. Cado dal pero, perché nulla avevo ricevuto, e scopro così di essere indagato per turbativa d’asta per una vicenda relativa al Forum mondiale Onu a Torino del 2015. A quel punto chiamo un amico avvocato e chiedo di essere sentito dal Pm Colace, che mi dice che mi avrebbe fatto ascoltare tre telefonate in cui parlavo con un mio carissimo amico, anche lui indagato, Giulio Muttoni, aggiungendo che in caso avesse poi chiesto il rinvio a giudizio avrebbe dovuto richiedere l’autorizzazione al Senato. Ovviamente acconsento all’ascolto delle telefonate, mi sottopongo all’interrogatorio, ritengo di poter spiegare la mia posizione e per me la storia finisce lì. Il 23 marzo 2018, giorno successivo in cui decado da senatore, ricevo un altro avviso di garanzia, con l’accusa di corruzione e traffico di influenze. Da quel momento resto in attesa fino all’ottobre 2020, quando arriva la chiusura delle indagini, e lì scopro di essere stato intercettato indirettamente 500 volte (un caso particolare perché tutte le intercettazioni sono esclusivamente con Muttoni) da febbraio 2015 fino al 21 marzo 2018».
Quindi in un periodo in cui eri senatore in carica.
«Certamente. Di queste intercettazioni ne ho potute ascoltare solo 130, quelle utilizzate, l’accesso alle restanti mi è stato negato e quindi ne ho avuta sintesi da Peagno, il mio avvocato, ma già questo è un primo elemento particolare. A quel punto dico all’avvocato che sarei andato a processo tranquillamente ma abbiamo scelto di attendere l’udienza davanti al Gup, che doveva valutare la richiesta di rinvio a giudizio, per sottoporle la questione. L’avvocato quindi le segnala subito la presenza di queste telefonate e la palese violazione dell’articolo 68 nonché la casualità delle stesse».
La norma infatti dice che comunque, prima di procedere, si deve chiedere l’autorizzazione al Senato.
«Esattamente. Il Gup assicura al mio avvocato che avrebbe risposto all’esito dell’udienza preliminare, ma dopo 6 udienze, in cui ogni volta abbiamo posto la questione che è appunto preliminare producendo memorie su memorie, la dottoressa rinvia tutti a giudizio e non dice nulla sul tema. A quel punto mi rivolgo all’allora Presidente del Senato Casellati, che trasmette tutto alla Giunta competente, dove vengo convocato e lì succede una cosa curiosa. L’ex Presidente Grasso si stupisce, e la Giunta è costretta ad approfondire non essendo mai capitato nella storia repubblicana che un Pm e un Gup di fronte a un’esplicita richiesta di un senatore indagato rifiutassero di rivolgersi al Senato per l’utilizzo delle intercettazioni. La Giunta solleva quindi conflitto di attribuzione, che verrà discusso il 21 novembre davanti alla Corte, chiedendo, senza neanche entrare nel merito, di annullare la richiesta di rinvio a giudizio essendo state violate le prerogative costituzionali. Se la Corte accoglierà si tornerà indietro, richiedendo al Senato l’autorizzazione».
Nel frattempo però si è creato anche un problema di competenza. L’indagine è stata trasferita da Torino a Roma, quindi si ricomincia da lì come voi avevate chiesto fin dall’inizio.
«Io vengo accusato di corruzione perché, nel lontano 2010, all’epoca deputato, decido di comprare casa ma non essendo ricco di famiglia avevo bisogno di 150.000 euro per fermarla, in attesa che mi venisse concesso il mutuo. Quindi mi rivolgo a questo mio caro amico imprenditore chiedendogli in prestito quei soldi, in attesa di restituirglieli una volta ricevuti quelli del mutuo. Facciamo quindi un contratto in cui ho preteso che restasse tutto scritto e lui mi fa un bonifico che restituisco con gli interessi, la prima tranche dopo cinque mesi (130.000) e i restanti 20.000 nove mesi dopo il prestito. L’accusa di corruzione è per aver ricevuto questi soldi con un tasso di interesse di favore, lo 0,83%. Ma avendo io pagato il 3,5% non riesco a capire come sia saltata fuori quella cifra. Ricostruendo col commercialista ci rendiamo conto che loro avevano calcolato il tasso come se avessi restituito tutta la cifra dopo 9 mesi, al che l’avvocato fa notare che, nel sostenere un’accusa di corruzione, poiché il bonifico era stato fatto a una banca di Roma, la competenza sarebbe appunto di Roma. Alla prima udienza del processo il Presidente del collegio ha trasferito – come previsto dalla riforma Cartabia – il tema alla Cassazione, che il 15 settembre ha sancito lo spostamento a Roma. Molti si sono felicitati con me ma così io ricomincio da capo».
Questo racconto è da un lato surreale per molti aspetti ma, dall’altro, dimostra anche come tutto ciò potrebbe capitare a chiunque. Ci si può ritrovare nelle maglie della giustizia con enormi costi materiali e personali e dopo anni si considera quasi una vittoria il ritorno alla casella di partenza.
«Vengo da una famiglia di operai e sono arrivato in politica solo grazie alla mia passione. Una vicenda del genere ti demolisce dentro, ti distrugge la credibilità, la dignità, l’onorabilità. E per sempre. Perché chi pensa che si possa recuperare un danno simile non sa che vuol dire. Gli effetti sono devastanti sulla tua attività professionale, anche se sono stato fortunato con aziende serie attente alle mie competenze e non al mio presunto certificato penale. Ci ho messo un po’ di tempo a tirar su la testa, la mia famiglia, i miei figli più grandi, hanno patito. Quando uscirono le carte del rinvio a giudizio molto l’ho saputo prima dai giornali che le hanno avute una settimana prima. Ho letto cose stupefacenti, che se non ci fosse da piangere bisognerebbe riderne, tutti fatti non veri già dalle carte ma se le dai in un certo modo anche il falso appare vero. Oggi non nutro particolare voglia di vendetta, non credo che a Colace succederà alcunché, in questi anni abbiamo visto come funziona il sistema disciplinare per i magistrati. Ma non sono interessato a questo. Io vorrei lasciare come eredità della mia vicenda il fatto che ad altri non debbano capitare certe situazioni, so che è una pia illusione. Ma la verità è raccontare la genesi di questa indagine, ed è la mia opinione non fatti documentali, perché dalla lettura delle carte ho avuto la sensazione che la vicenda inizi con un’iscrizione contro ignoti per 416 bis e che vi fosse un tentativo di associarmi alla Ndrangheta. Facendo un rewind della mia attività, essendomi occupato di difendere la Torino Lione, mi chiedo se forse ci fosse bisogno di colpire qualcuno. Insieme a me sono stati colpiti altri esponenti torinesi non del Pd, anche magistrati, che si occupavano guarda caso dello stesso tema. Non so se potrò dimostrare questa tesi ma certamente è stato un lavoro scientifico, essendo stato intercettato solo mentre parlavo con Giulio Muttoni. Legittimo, lo dico con sarcasmo, che il Pm possa sostenere come casuali 500 telefonate con un’unica persona a me non sconosciuta, amico da venticinque anni e padrino di battesimo di mia figlia. Oggi mi auguro di poter avere davanti a Roma un magistrato che abbia voglia di ascoltare e leggere insieme accuse che non ha fatto lui. Io a ottobre 2020 pensavo che la questione della violazione dell’articolo 68 fosse una cosa clamorosa, il 21 novembre, quando ci sarà la discussione alla Corte e io sarò seduto lì, potrò dire tranquillamente che quello è il problema minore del fascicolo».
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