Parla la leader della sinistra israeliana
Intervista a Tamar Zandberg: “Bennet è di destra ma Netanyahu era un pericolo”

«Nove donne su 27 ministri: un record nella storia dei governi d’Israele. La prima volta di un ministro arabo israeliano: un segnale importante di unione nazionale per una società segnata da profonde divisioni non solo sociali ma etniche e religiose. Non è male come inizio del post-Netanyahu». A sostenerlo, in questa intervista esclusiva a Il Riformista, è Tamar Zandberg, leader di Meretz, la sinistra pacifista israeliana, neo ministra della Protezione ambientale in un governo che per i primi due anni sarà guidato da un politico dichiaratamente di destra, Naftali Bennett.
«Su molte questioni – rimarca in proposito Zandberg – le nostre posizioni sono agli antipodi rispetto a quelle di Yamina (Destra, il partito di Bennett, ndr). Ma oggi Israele ha bisogno di un governo che riporti la vita politica all’interno di un quadro di normalità democratica. Abbassare i toni, ricostruire un clima di rispetto reciproco, in cui ci sono avversari ma non nemici da additare alla piazza. Abbassare i toni e difendere lo stato di diritto. Il ‘governo del cambiamento’ nasce innanzitutto con questa ‘mission’ e non è poco, mi creda, per un Paese che ha rischiato una guerra civile».
Il nuovo governo Bennett-Lapid, di cui lei fa parte, nasce da una coalizione di 8 partiti che definire eterogenea è un eufemismo. Si va dalla destra nazionalista ai pacifisti di sinistra di Meretz di cui lei è una delle leader. Una coalizione che peraltro si regge su numeri risicati, come dimostra il voto di fiducia della Knesset di domenica scorsa (60 sì, 59 no, 1 astenuto). Le differenze tra destra e sinistra sono miracolosamente scomparse in terra d’Israele?
Non si tratta di destra o sinistra, ma di qualcosa che mina nel profondo il sistema democratico d’Israele, quello di cui siamo tutti giustamente orgogliosi. E questo mette in secondo piano, in questa fase della storia d’Israele, differenze tra destra e sinistra che restano e che nessuno intende celare. Mai nella storia d’Israele avevamo visto un primo ministro attaccare frontalmente la magistratura e la polizia, perché avevano indagato su affari illegali che chiamavano in causa direttamente il primo ministro. Netanyahu ha imposto la fine della legislatura andando contro anche a una parte del suo stesso partito (il Likud) e ai propositi del capo dello stato (Reuven Rivlin, anch’egli del Likud, ndr). Netanyahu ha portato all’estremo la personalizzazione della politica in Israele, comportandosi come un autocrate e non come un primo ministro. Ha preso in ostaggio il Paese, trasformando le elezioni in un referendum sulla sua persona, come se essere primo ministro lo ponesse sopra la legge. Le stesse trattative per la formazione del governo si erano ridotte a una sorta di scambio: estorsione in cambio di immunità, visto che nel programma del nuovo esecutivo dove esserci una legge che limitava pesantemente i poteri della Corte suprema e concedeva una sorta di immunità al primo ministro. Questo si chiama attacco allo stato di diritto. Occorreva impedire che questo progetto si realizzasse. Il nuovo governo nasce da questo intento. Sulla pace, la giustizia sociale, l’idea stessa di ebraismo, le nostre posizioni sono agli antipodi di quelle di Bennett e del suo partito. C’è un fatto, però, che non può essere messo tra parentesi e su cui non smetterò mai d’insistere…
E quale sarebbe questo fatto?
L’emergenza democratica. Pur di ottenere l’impunità di fronte alla Legge, Netanyahu ha dimostrato di essere disposto a tutto, anche a sdoganare i fascisti. Lo abbiamo detto in campagna elettorale e lo abbiamo ripetuto nei giorni, non semplici, di trattativa per la formazione del nuovo governo : Benjamin Netanyahu rappresenta un pericolo per il nostro sistema democratico. E non perché è un uomo di destra, ma perché pensa e agisce come un autocrate, una sorta di Erdogan israeliano. Bennett è uomo di destra, ma non è un pericolo per la democrazia. Netanyahu lo è.
Resta il fatto che Israele guarda decisamente a destra. Ed è una destra, come lei stessa ha sostenuto, che fa paura. Un cambiamento che non è solo politico.
Ha ragione. Non è solo politico. Non da oggi sono convinta che la destra ha preparato il suo successo elettorale vincendo una battaglia culturale che la sinistra non ha voluto o saputo combattere. Abbiamo sottovalutato il malessere sociale, la rabbia che covava dentro i settori più deboli, meno garantiti, della società israeliana. Siamo stati identificati come l’espressione delle élite, noi del Meretz come il “partito degli scrittori”. Sia chiaro: io mi sento onorata del fatto che per noi, nel corso del tempo, abbiano votato personalità che hanno fatto grande Israele nel campo della letteratura, delle arti, della scienza. Ma essere il partito degli scrittori non significa dimenticare che esistono aree di malessere, di emarginazione, che non avendo incontrato sulla loro strada la sinistra, hanno guardato a destra. Una destra che ha saputo strumentalizzare rabbia e insicurezza inventandosi di volta in volta il Nemico responsabile di tutto: i palestinesi, gli arabi israeliani, i gay, gli immigrati. In questo Netanyahu è stato un maestro, un cattivo maestro.
Oltre che come il “partito degli scrittori”, Meretz è stato identificato anche come parte di quel “campo della pace”, in tempi in cui la pace sembra essere uscita dall’agenda politica d’Israele.
Quando parlo di subalternità alla narrazione della destra, mi riferisco anche a questo. Come se la pace fosse altra cosa rispetto ai problemi di tutti i giorni, una sorta di bene di lusso per i ricchi borghesi di Tel Aviv. Qui sta un nostro limite. Non aver fatto intendere che pace e giustizia sociale sono le due facce di una stessa medaglia. Perché raggiungere una pace giusta con i palestinesi significa destinare una parte importante del nostro bilancio statale dalla difesa all’istruzione, alla sanità pubblica, alla ricerca. Riconosco un nostro limite, grave, ma questo non significa che questa idea di pace sia tramontata. La pace non è, come la destra ripete, un cedimento al terrorismo e a chi vorrebbe buttare a mare gli ebrei e cancellare Israele dalla carta geografica del Medio Oriente. La pace è uno dei pilastri su cui rifondare la nostra democrazia. Se questo significa “testimonianza”, ne vado fiera.
Manterrà questa posizione anche ora che è al governo con Bennett, Lieberman, Sa’ar da sempre schierati contro uno Stato palestinese?
Assolutamente sì. Stare insieme in un governo di emergenza democratica non vuol dire cancellare le differenze. Vede, noi avremmo preferito un governo di centrosinistra ma non esistono i numeri per formarlo. Quello che abbiamo contribuito a formare è stato definito “governo del cambiamento”. Io preferisco chiamarlo “governo di scopo”. che s’impegni nella lotta alla pandemia, il che non significa solo portare a compimento la campagna di vaccinazione, ma dare risposta al dramma di decine di migliaia di famiglie che il Covid ha gettato sul lastrico. Un governo che si batta contro le disuguaglianze sociali e che difenda l’autonomia del potere giudiziario dagli attacchi forsennati condotti da Netanyahu. Un governo che difenda lo stato di diritto. Un bene supremo, che dovrebbe stare a cuore anche a una destra democratica. Occorre rafforzare le “difese immunitarie” del nostro sistema democratico, anche attraverso una legge che stabilisca che una persona sotto accusa per crimini come la corruzione non può formare un governo.
C’è chi sostiene che se Donald Trump fosse ancora il presidente degli Stati Uniti, Benjamin Netanyahu, l’”amico Bibi”, sarebbe ancora il primo ministro d’Israele.
Sarebbe facile risponderle che la storia non si fa con i se e con i ma. Facile e comodo. È indubbio che Netanyahu sia stato sostenuto da Trump come nessun altro presidente degli Stati Uniti aveva mai fatto con qualsiasi altro primo ministro d’Israele. Trump è entrato pesantemente nelle campagne elettorali d’Israele, non solo con endorsement pubblici a sostegno di Netanyahu, ma calando alcune importanti decisioni, in ultimo la firma in mondovisione alla Casa Bianca dei cosiddetti “Accordi di Abramo”, a ridosso del voto. Il suo legame era prima con Netanyahu che con Israele.
Con Biden le cose cambieranno?
Penso proprio di sì. E questo più che un auspicio è una certezza. Il presidente Biden è un amico d’Israele, e lo ha dimostrato anche da vice presidente con Barack Obama. Amico d’Israele, non di Bennett, Lapid o chiunque altro. E questa è una differenza sostanziale con il suo predecessore. E la decisione del Dipartimento di Stato USA di aprire un consolato a Gerusalemme Est è il segnale della volontà dell’amministrazione Biden di rimettere in movimento il processo di pace.
Nel governo di cui lei fa parte, ci sono 9 donne su 27 ministri…
Un record nella storia d’Israele. È un fatto politico, non d’immagine. Un fatto politico importante, perché sono convinta da sempre che il cambiamento o si declina al femminile o è condannato a essere parziale, monco. C’è ancora tanto da fare per arrivare alla parità di genere in ogni campo della vita sociale, economica, pubblica così come nell’ambito familiare. Il Covid ha incrementato le disuguaglianze sociali e di genere. Spero che al di là delle diverse appartenenze politiche, noi nove ministre riusciremo a fare squadra.
Nel suo tuonante discorso durante il dibattito sulla fiducia, Netanyahu ha avvertito: “Torneremo presto, spazzeremo via questi traditori”.
Quando parlavo di svelenire il clima a questo mi riferivo. Ad un linguaggio tossico che può avvelenare un Paese. Chi la pensa diversamente è un avversario, non un traditore. E quando un primo ministro, Yitzhak Rabin, fu oggetto di una campagna d’odio, sappiamo come andò a finire. Tragicamente.
(Ha collaborato Cesare Pavoncello)
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