Rintanato in manovre di Palazzo
Intervista ad Achille Occhetto: “Pd smetta di giocare in difesa, si vince con le proprie idee”
Se c’è un “homo politicus” che di “Cantieri di sinistra” può parlare a ragion veduta, costui risponde al nome di Achille Occhetto. È stato l’ultimo segretario del Partito comunista italiano (dal 1988) e il primo segretario del Partito democratico della sinistra (fino al 1994), è stato cofondatore e vicepresidente del Partito del socialismo europeo nel 1990, e tanto altro ancora. E anche oggi, con i suoi scritti, frequenta il futuro, come conferma il suo ultimo libro Una forma di futuro. Tesi e malintesi sul mondo che verrà (Marsilio, 2020).
A proposito del Pd Mario Tronti ha detto: «Se non si scrolla di dosso questa immagine del più affidabile degli establishment, non andrà lontano. Deve trasformarsi in una forza di sinistra autenticamente popolare, perno di un fronte più vasto». Solo così, sostiene Tronti può battere sul campo una destra sempre più radicalizzata e sovranista.
Concordo. Tanto più perché ciò che la pandemia ha svelato delle ingiustizie planetarie del modello di sviluppo neoliberista e capitalista sta a dimostrare che occorrerebbe aprire al più presto una fase nuova. Quella delle grandi alternative di visione, programmatiche e valoriali. Invece, vedo attorno a me, solo proposte di tecniche di ammodernamento del sistema. Per fare un esempio: tutti snocciolano il rosario del potenziamento della rete. Giustissimo. Ma nessuno ci dice su quale terreno devono cadere le modernizzazioni. Non una parola sul grande tema del millennio. Quello della democratizzazione del cyberspazio. Per cambiare registro sarebbe necessario il sostegno di una convinta maggioranza. E, quindi, non di una sinistra ministeriale. Ma di una sinistra che si ponga il problema di cambiare i rapporti di forza nella società. Di una sinistra che esca dalla mera logica della governabilità, dalle alchimie del politichese. Vedo una parte del Pd impantanarsi già in questo inveterato vizio. Dominata dal timore del conflitto si rintana nelle manovre di Palazzo. O, ancor peggio, nella mera ricerca di un uomo decisivo. Anche le qualità del personale politico sono rilevanti. Ma la sinistra, e soprattutto il Paese, hanno bisogno di ben altro. Per questo, come ho già sottolineato in una precedente intervista al Riformista, occorre tornare in mezzo a un popolo in parte ostile e irretito da parole d’ordine sempliciste quanto fuorvianti. Per questo non ha nessun senso definirsi minoritari o maggioritari. La vera sfida è nel definirsi come sinistra progettuale in funzione del governo del paese, che sta al governo o all’opposizione a seconda della volontà espressa dagli elettori. Non si tratta di stare all’opposizione ad ogni costo, ma nemmeno di stare ad ogni costo al governo, come ha giustamente sostenuto Tronti. Ritengo che bisogna sempre riandare alle radici, non già quelle di un socialismo etico e meramente umanitario, ma tentando la via più ardua, volta a individuare i mali strutturali delle attuali società capitaliste dentro un mondo che ci consegna una crisi planetaria della democrazia. Con l’onestà intellettuale di saper discernere tra radici da far germogliare nel nuovo terreno e radici da recidere. Questo è l’autentico significato al ritorno, auspicato da Tronti, alla bella espressione, Aufheben: superare conservando. Che è altra cosa dal “rinnovamento nella continuità”. Perché non tutto va conservato e molto, moltissimo va cambiato, a partire dal modo come oggi si presenta la marxiana contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione. Al cui centro si colloca la scienza e il rivoluzionamento indotto dalle nuove tecnologie. Basti pensare al lavoro a distanza, alla polverizzazione del mondo del lavoro e alla necessità di dare dignità sociale al lavoro non solo dentro ma anche fuori dalla fabbrica. Nel momento stesso, in forme inedite, si ritorna all’antico, attraverso il riemergere del caporalato e del nuovo proletariato degli invisibili, senza rappresentanza. La sinistra non ha ancora avvertito compiutamente che non si tratta del vecchio sottoproletariato, ma di lavoratori che contribuiscono alla crescita del famigerato Pil. Questi sono alcuni dei motivi che dovrebbero indurci a saldare le radici storiche del movimento operaio con le inedite sfide planetarie ed epocali del nuovo millennio. Capace non già di evitare, ma di stare nel gorgo delle nuove contraddizioni epocali. Quelle che riguardano la salvezza del pianeta, quelle della terribile voragine delle diseguaglianze planetarie e delle migrazioni bibliche.
Quale pensiero, visione, progettualità dovrebbe definire le fondamenta di questo “cantiere”?
A mio avviso ci vuole qualcosa di diverso da semplici convegni di esperti e di ministri che lasciano sul terreno carte disparate prive di un’anima unificante. Il punto di partenza dovrebbe essere un “preambolo ideale e politico” che rimetta in campo i fondamentali su cui fondare la nuova identità della sinistra. Gli esperti, utilissimi, vengono dopo. Se non si creano le condizioni di un campo magnetico unificante le parole rimarranno scritte sulla sabbia. Ma per creare quella tensione unitaria occorrerebbe prendere le mosse da atti politici che rompano, nella successiva fase del cambiamento del modello di sviluppo, l’attuale quadro politico, mettendo in campo tutte le energie della sinistra, della democrazia militante e della cittadinanza attiva. Per definire le fondamenta di questa prospettiva ciascuno è chiamato a dare il suo contributo. Per ciò che mi riguarda, in parte, l’ho fatto nel mio ultimo libro. Anche se le scelte nella direzione di una diversa visione qualitativa della crescita dovrebbero incominciare a misurarsi con il tipo di ripartizione delle risorse messe a disposizione dall’Europa. Invece di occuparsi, prevalentemente, della occupazione del potere al tavolo della loro quantitativa distribuzione. Ancora rimpasti, furbesche manovre, nel chiuso mondo della politica, separato dalla società.
Nel suo bel libro appena uscito vola alto e prende di petto le sfide epocali che il mondo del postcoronavirus sarà chiamato ad affrontare. È un ricco prontuario per una sinistra che non ha smesso di “sognare” un cambiamento radicale dello stato di cose esistente, offre una visione e proposte programmatiche su tanti e cruciali capitoli aperti: il riemergere del populismo, il falso europeismo e l’ipocrisia sui valori, l’oscillazione convulsa tra liberalismo esasperato e derive autoritarie, il recupero delle libertà fondamentali e il sogno mai realizzato di una democrazia inclusiva, la fine dell’ossessione per il leader e la dittatura della maggioranza, la tecnopolitica, il ruolo della competenze e dell’istruzione, il pieno riconoscimento delle donne e la parità realizzata, una visione realista e onesta delle risorse del pianeta e della loro gestione, per gettare le basi di un modello diverso di sviluppo. Ma esistono soggettività organizzate in grado di sostenere questa visione progettuale?
Al momento non esistono. Tuttavia non bisogna disperare. È nota la mia critica al peccato d’origine del Pd. Per avere svilito il grande obiettivo di unificare le forze laiche e cattoliche della democrazia antifascista, attorno alla ricerca di una nuova identità della sinistra, limitandosi a una litigiosa fusione di apparati. Ciò nonostante ritengo che il compito dello stesso Pd -anziché parlare di fumosi autoscioglimenti – sia quello di farsi promotore di quel vasto campo magnetico, di cui ho parlato. Il che comporta la necessità di superare l’errata idea di sostituire lo scontro e il confronto tra destra e sinistra con quello tra innovazione e conservazione. Idea fuorviante che è stata il cavallo di battaglia del blairismo, e in Italia, del “partito di Renzi”. Con la conseguente subalternità al neoliberismo. Si tratterebbe di avvertire, sul piano culturale e su quello programmatico, che lo scontro sarà, inevitabilmente, sulle diverse direzioni del “ nuovo” al fine di impedire un esito catastrofico della modernità. E che è giunto il momento di battersi non solo per un paese più moderno ma soprattutto per un paese più giusto, al cui centro collocare il valore sociale del lavoro. Non c’è dubbio che un simile confronto ideale e politico richiederebbe una sinistra che sappia muoversi, contemporaneamente, sul terreno degli “ interessi” – a partire da quelli dei lavoratori – e su quello dei “valori”. Superando la contrapposizione tra diritti civili e diritti sociali. Che è la via maestra per combattere nella società, e in mezzo al popolo, il populismo. Una simile operazione richiederebbe una rifondazione identitaria di tutte le forze che operano nel campo della sinistra e del centro-sinistra. Quelle rappresentate politicamente e quelle che non lo sono. O che non si sentono rappresentate dai riti che tuttora imperversano nel cielo della politica. Ciò si rende ancora più impellente dinnanzi l’avvicinarsi dell’appuntamento con i nodi irrisolti delle società neocapitaliste, messi drammaticamente a nudo dalla stessa pandemia. Che rendono più stingente il confronto ideale e politico tra destra e sinistra. Che chiamano in causa un orizzonte, una “visione del mondo”. Non a caso, come lei ha ricordato, nel mio libro su “Una forma di futuro” prendo di petto le sfide epocali che il mondo del postcoronavirus sarà chiamato ad affrontare. Smettiamola di cercare di arginare il nazionalismo e il populismo rintanati, timorosi, sulla difensiva. È importante fare la mossa del cavallo, saltare il terreno dello scontro imposto dai populisti, per muovere decisamente nella direzione opposta: quella del rilancio internazionalista. Occorre, senza avere sempre un occhio ai sondaggi, combattere tra i cittadini le anguste e miopi suggestioni nazionaliste, anche attraverso una efficace predicazione di massa, come quella del socialismo delle origini, con la predicazione del solidarismo sovranazionale. Si vince con le proprie idee, non con i pasticci. Si tratta, con pazienza e tenacia, di promuovere valori alternativi, di avviarsi con decisione verso la riforma delle istituzioni internazionali, a partire dalla costruzione della nuova Europa politica, come tassello fondamentale per governare democraticamente la globalizzazione. Che è la via maestra per ritrovare la sovranità popolare e sovranazionale. Per ridare un senso a una democrazia in crisi in tutto il mondo.
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